Tra i dirigenti della Polizia di Stato promossi ieri dal Ministro dell’interno Luciana Lamorgese e dal Capo della Polizia Franco Gabrielli, ci sono anche due condannati in via definitiva per i falsi e gli abusi del G8 di Genova del 2001, nonché il responsabile di una serie di cruenti episodi di ordine pubblico, assurti alla ribalta della cronaca tra il 2012 e il 2017 per le loro nefaste conseguenze su credibilità e affidabilità di chi dirige le Forze dell’ordine nella gestione delle piazze. Ma queste sono solo le ultime di una serie di promozioni che appaiono ‘devianti’ rispetto ai canoni di integrità, capacità e sangue freddo che dovrebbero caratterizzare questori e vice questori, da cui spesso dipendono i diritti fondamentali e l’incolumità di tutti.
Sembra come se, in vista delle crescenti tensioni socio-economiche, si volesse infiltrare la pubblica sicurezza con una radice a carattere reazionario-repressivo, “vulnus” rintracciabile “in nuce” dal mancato “spoil system” causato dalla cosiddetta amnistia Togliatti, che ha consentito a chi era stato iscritto al partito fascista di permanere negli incarichi dirigenziali al ministero dell’Interno; così condizionando “ab initio” la selezione di una classe dirigente protagonista in tempi più vicini di una stagione intorbidita da vicende che hanno lasciato il segno nel DNA della Polizia di Stato: la morte dell’anarchico Pinelli a Milano (1969); i depistaggi nelle indagini per il rapimento di Aldo Moro a Roma (1978); il blitz dei NOCS a Padova per la liberazione del generale USA Dozier e relative torture (1982); la Uno bianca di Bologna (1987-1994); l’archivio segreto dell’Ufficio affari riservati del Viminale (1996); la morte per fuoco amico dell’Isp. Donatoni dei NOCS durante il sequestro Soffiantini e relativo depistaggio (1997).
Negli ultimi anni, in continuità con tale logica, sono stati posti ai vertici di questure e uffici cruciali del Dipartimento della pubblica sicurezza, dirigenti condannati o sotto processo per gravi reati e/o protagonisti di episodi censurabili, che hanno destato indignazione se non anche ribellismo nell’opinione pubblica. Ciò che non pare certo di buon auspicio alla luce delle attuali tensioni socio-economiche, destinate ad amplificarsi in tutto il Paese, se non saranno gestite nell’adempimento dei doveri inderogabili, soprattutto da parte di chi rappresenta un’Autorità di pubblica sicurezza “super partes”.
Ieri sono stati promossi Pietro Troiani e Salvatore Gava, protagonisti dei fatti del G8 di Genova e condannati in via definitiva a 3 anni e 8 mesi, più 5 anni di interdizione dai pubblici uffici, il primo per aver portato materialmente le due bombe molotov nella scuola Diaz e il secondo per averne falsamente attestato il rinvenimento all’interno; ciò che giustificò abusivamente le perquisizioni e gli arresti in massa dei manifestanti, in gran parte picchiati e torturati tanto da spingere la Corte dei conti a definire “quella notte sonno della ragione”, nella quale per la Corte di Cassazione “le forze dell’ordine hanno gettato discredito sulla Nazione agli occhi del mondo intero”.
Nonostante Gabrielli avesse fatto ammenda sui fatti del G8, dichiarando pubblicamente che a Genova nel 2001 “ci fu tortura” e che nei panni dell’allora Capo della Polizia Gianni De Gennaro “mi sarei dimesso”, in realtà già nel 2017 fu proprio lui che, anziché magari adeguatamente sanzionarli come previsto dall’ordinamento, ha reintegrato i dirigenti condannati in via definitiva – ieri pure promossi – attribuendogli per di più posti di responsabilità apicale e/o ben remunerati incarichi all’estero: Troiani divenne il Dirigente del Centro operativo autostrade di Roma e Lazio (il più grande d’Italia) e Gava il Responsabile dell’Ufficio di Collegamento Interforze del Servizio per la Cooperazione Internazionale di Polizia (SCIP) in Albania. All’epoca anche Gilberto Caldarozzi e Fabio Ciccimarra, pure loro condannati a 3 anni e 8 mesi più 5 anni di interdizione per i falsi del G8 furono reintegrati “tout court”, il primo con il prestigioso e strategico incarico di Vice direttore operativo della DIA (Direzione investigativa antimafia) e il secondo – condannato anche a 2 anni e 8 mesi (poi prescritti) per il sequestro dei manifestanti nella caserma Rainero durante il G7 di Napoli – recentemente promosso, sempre da Gabrielli, come Resident espert in Montenegro.
Ma oltre ai dirigenti condannati per il G8, ieri è stato promosso anche Francesco Zerilli, salito alla ribalta della cronaca innanzitutto come autore di una serie di cruente cariche ‘a freddo’, a partire da quella del 2012 in pieno centro a Livorno nei confronti di antagonisti, anarchici e no-TAV, con gravi ricadute in termini di tensioni sociali nei giorni successivi. Ma l’inadeguata aggressività di Zerilli si è evidenziata soprattutto tra il 2014 e il 2017 quando era in forza alla Questura di Roma in qualità di responsabile dei servizi di ordine e sicurezza pubblica nel centro della Capitale, molto spesso conclusi con manganellate e trauma cranici: prima nei confronti dei movimenti per la casa che manifestavano davanti al Campidoglio; poi dei tassisti davanti a Montecitorio; infine degli operai della ThyssenKrupp a rischio licenziamento nei pressi della Stazione Termini, accompagnati da Maurizio Landini, allora leader della FIOM e attuale Segretario generale della CGIL, che ricevette pure lui la sua dose manganellate in testa, all’urlo di Zerilli: “Caricate!”.
Ma l’episodio che più è rimasto impresso nell’opinione pubblica fu quello verificato a margine dello sgombero di un gruppo di etiopi ed eritrei richiedenti asilo o protezione sussidiaria da un edificio di via Curatone, accampati in piazza Indipendenza, cacciati con gli idranti e poi caricati e inseguiti dai reparti antisommossa guidati da un Zerilli urlante “levatevi dai coglioni, carica, forza”, che incitava i poliziotti “se tirano qualcosa spaccategli un braccio”. Frasi e contesto che fecero molto scalpore nell’opinione pubblica, tanto da costringere Gabrielli a rimuovere il dirigente, ma non per punirlo o trasferirlo per incompatibilità, bensì per ‘parcheggiarlo’ in un ufficio più comodo e defilato, in attesa che passasse il clamore, fino a ieri quando è stato promosso, magari pronto per la gestione di nuove emergenze.
Modalità attuate anche con i responsabili del sequestro Shalabayeva, per 7 anni intoccabili, nonostante pendessero sulle loro teste accuse gravissime da parte delle due Procure che li hanno indagati, del GIP che li ha rinviati a giudizio e del Tribunale che li ha recentemente condannati a 5 anni con interdizione perpetua dai pubblici. Basti scorrere le loro fulminanti carriere: Renato Cortese, all’epoca dei fatti capo della Squadra mobile della Questura di Roma, poi direttore dello SCO (Servizio centrale operativo) ed infine Questore di Palermo promosso Dirigente generale, apice della carriera in Polizia; Maurizio Improta, all’epoca dirigente dell’Ufficio immigrazione della Questura di Roma, poi Questore di Rimini ed infine il Capo della Polfer a livello nazionale. Solo la recente, grave condanna ha costretto Gabrielli a destinarli ad altri incarichi, magari anche loro in attesa di riappropriarsi della gestione delle piazze, passato il clamore.
C’è poi il caso ancor più emblematico di Massimo Improta (fratello minore del suddetto Maurizio) che nel 2012 era in forza alla Questura di Roma come responsabile dei servizi di ordine pubblico presso lo Stadio Olimpico e venne promosso nonostante fosse stato appena indagato per la falsificazione del verbale di arresto nell’ambito del cosiddetto pestaggio Gugliotta, preso a calci e pugni sino alla vistosa perdita di un dente incisivo. Così proseguendo per anni l’attività di gestione della piazza, anche al sopraggiungere nel 2017 della condanna ad 1 anno e 3 mesi, visto che è tuttora in servizio alla Questura di Roma, come capo dell’Ufficio prevenzione e soccorso pubblico da cui dipendono tutti gli equipaggi operativi della Capitale.
Tutto ciò aggravato dal fatto che nel suo fascicolo personale è stato annotato il coinvolgimento in due pregressi procedimenti penali, a suo tempo archiviati, ma che avrebbero dovuto essere premonitori: 2003 – denunciato per abuso d’ufficio da un manifestante, da lui tratto in arresto poi però non convalidato dall’autorità giudiziaria, quando era Vicedirigente del Commissariato di PS – Trevi Campo Marzio; 2008 – denunciato-querelato per lesioni, minacce e violenza sessuale da una propria dipendente quando era Dirigente del Commissariato di PS – Castro Pretorio, a seguito di un “incontro realmente accaduto tra i due la sera del 28.2.2008”, per cui comunque “il Questore di Roma non ha ritenuto di dover procedere disciplinarmente”, così contribuendo ad un’“escalation” che si sarebbe potuta prevenire.
Ma buon sangue non mente, considerato che Maurizio e Massimo sono i figli del famoso Prefetto Umberto Improta, per decenni uomo di punta del Viminale, noto anche per essere stato coinvolto nelle torture dei brigatisti prima e dopo la liberazione del generale USA Dozier; in concorso con il famigerato “dottor De Tormentis” e i quattro dell’Ave Maria, specializzati in “waterboarding” o “interrogatorio duro dell’acqua e sale: legavano la vittima a un tavolo e, con un imbuto o con un tubo, gli facevano ingurgitare grandi quantità di acqua salata” (si veda l’inchiesta de l’Espresso del 6 aprile 2012). |