Il nostro Paese si trova di fronte alla cosiddetta “seconda ondata” di Coronavirus. Per fronteggiare la situazione di crisi, il DPCM del 3 novembre ha suddiviso il nostro territorio in 3 diverse aree, sulla base di coefficienti determinati secondo criteri di oggettività attraverso la combinazione di diversi parametri (tra questi, indice di contagio Rt, dei focolai, della situazione di occupazione dei posti letto e della saturazione delle terapie intensive negli ospedali), all’esito del monitoraggio periodico effettuato congiuntamente dall’Istituto Superiore di Sanità, dal Ministero della Salute e dai rappresentanti delle Regioni, in condivisione anche con il Comitato tecnico scientifico. In più, tra i diversi decreti emanati, il D.L. “Ristori” (28/10/2020, n. 137, il primo della serie “Ristori”) ha introdotto diverse misure urgenti, sia per tutelare la salute dei cittadini sia per dare sostegno ai lavoratori colpiti dalla pandemia, ma non solo. Infatti, il recente decreto presenta provvedimenti anche in materia di giustizia e sicurezza: gli articoli 28, 29 e 30 si occupano specificamente di carcere. A prescindere dal Coronavirus, è indubbia la criticità della situazione carceraria italiana, dove al momento i detenuti sono 53.992 a fronte di 47.105 posti reali. Numeri allarmanti, che rappresentano una delle più importanti emergenze del nostro sistema penitenziario. Infatti, se la migliore prevenzione, come viene ripetuto da mesi, è la mancanza di assembramenti, è chiaro che, alla luce del sovraffollamento, il mantenimento della distanza non può essere garantito, e di conseguenza il rischio di diffusione del contagio è più elevato. In effetti, questo sembra diffondersi in maniera esponenziale: il 10 settembre, il numero di contagiati era esiguo, limitato a 10 detenuti e 11 agenti; due mesi dopo, alla data del 17 novembre, risultava un totale di 1694 positivi: 758 i primi, e 936 i secondi. Per concludere, ora, stando alle parole dello stesso Ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, ci sono 826 detenuti positivi e 1.042 positività tra gli operatori penitenziari. Cifre che segnano un tragico primato, perché superano la quantità raggiunta nel periodo di massima emergenza della scorsa primavera. In conclusione, dati alla mano, se in tre mesi si è passati da 21 contagiati a più di 1.690, solo nelle ultime settimane l’incremento dei contagi è aumentato più del 600% (basti pensare che nel lasso temporale 12-17 novembre, si è passati da 1543 positivi a 1694). Già durante la prima ondata erano stati presi, come vi abbiamo raccontato ripetutamente sui nostri canali, diversi provvedimenti volti a ridurre la popolazione carceraria con risultati che, nonostante il bonus deflattivo, non sono stati sufficienti. Per questa ragione, la necessità di ridurre il numero di detenuti è impellente, e il nuovo Decreto legge affronterà la questione con una serie di misure (attualmente) in vigore fino al 31 dicembre 2020. Noi, non possiamo esimerci dal tentativo di approfondirle, nel limite del possibile.
All’art. 28 si parla dei condannati ammessi al regime di semilibertà, a cui possono essere concesse licenze premio straordinarie, anche di durata superiore ai 45 giorni per ogni anno scontato, salvo gravi motivi ostativi riscontrati dal magistrato di sorveglianza. Tuttavia, la straordinarietà della misura non va ad aumentare il numero di detenuti che potranno beneficiare della licenza, poiché riguarda solamente la durata della stessa. Con l’art. 29, invece, viene stabilita una deroga ai permessi premio per chi ne abbia già beneficiato e per le persone già assegnate a lavoro, istruzione e formazione esterni al carcere. La deroga in questione riguarda i limiti temporali previsti ex lege: 15 giorni per ciascun permesso fino ad un massimo di 45 all’anno per i maggiorenni; 30 giorni fino ad un massimo di 100 all’anno per i minorenni. Anche in questo caso, però, la misura non risulta realmente sufficiente a contenere il problema del sovraffollamento poiché, complici la crisi economica derivante dal primo lockdown e l’impossibilità di spostarsi in alcuni territori (a seconda del “colore” della Regione, gli spostamenti subiscono più o meno drastiche limitazioni), risulta poco concreta l’opportunità di lavorare al di fuori del carcere e molto difficile quella di formarsi. Infine, l’art. 30 si occupa di detenzione domiciliare: chi, con pena residua di 18 mesi, ne faccia richiesta, potrà scontare il periodo rimanente a casa “o in un altro luogo pubblico o privato di cura, assistenza, accoglienza”; verrà imposto l’uso del braccialetto elettronico come strumento di controllo, ad eccezione dei minorenni e di chi abbia da scontare una pena minore di sei mesi, sempre in subordine alla mancanza di gravi motivazioni ostative ravvisate dal magistrato di sorveglianza. L’aspetto problematico di questa misura, però, risiede nelle concrete possibilità di dotarsi di braccialetti elettronici o mezzi equivalenti: ad oggi, non risulta chiaro il numero preciso di dispositivi messo a disposizione dal Governo. Eppure, alcuni mesi fa era stato vinto un bando da Fastweb per la fornitura di 15 mila dispositivi, che sarebbero stati forniti per un ammontare di 1.200 unità mensili fino al dicembre 2021. Ad oggi, quindi, l’unica certezza riguarda la loro assenza: è di pochi giorni fa la notizia di un detenuto a Secondigliano, positivo al Coronavirus, a cui erano stati concessi gli arresti domiciliari ma che, a causa della mancanza di strumenti di controllo, è dovuto tornare in carcere, dove ora è tenuto in isolamento. In generale, le misure risultano, ancora una volta, non bastevoli ad arginare il rischio di contagio, poiché di fatto non aiutano a diminuire il numero dei detenuti ad una cifra adeguata. In primis, perché negli artt. 28 e 29 risulta evidente il maggior focus sulla durata di licenze e permessi premio piuttosto che sul numero effettivo di beneficiari, ed inoltre le novità introdotte escludono diverse categorie di detenuti. Secondo l’elaborazione dei dati fornita dal Garante nazionale, soltanto 1.142 persone hanno un fine pena inferiore a sei mesi e non sono soggette alle preclusioni ostative, incluse quelle su base disciplinare, mentre i detenuti con un fine pena inferiore ai diciotto mesi e che ugualmente non incontrano le sopraddette limitazioni sono 2.217. Tuttavia, su una prima platea di 3.359 potenziali destinatari della detenzione domiciliare, bisogna considerare 1.157 che non ne potranno usufruire perché privi di fissa dimora, in un sistema in cui le case d’accoglienza (e il numero degli educatori) sono insufficienti ad ospitarli. Da questa lettura emerge chiaramente una miopia di fondo nel considerare la realtà carceraria e le sue complesse dinamiche; un intervento smussato, che ancora una volta caricherà − come già avvenuto per i decreti adottati in risposta alla prima ondata − di ulteriore responsabilità i magistrati di sorveglianza. Come rileva il Garante nazionale, dovranno essere presi ulteriori provvedimenti per affrontare finalmente con decisione la problematica (tale ancora prima dell’emergenza pandemica) del sovraffollamento carcerario.
Proprio a questo proposito, risulta insensato far rientrare persone che in carcere trascorrono solamente la notte, o mantenere la detenzione per chi sia condannato a pene molto brevi (senza considerare la quantità di detenuti che, in quanto affetti da malattie di tipo psichiatrico, non dovrebbero trovarsi in istituti penitenziari, bensì in REMS, come prevede l’art. 148 c.p.). Deve essere inoltre riaffermato il principio di tutela della vulnerabilità soprattutto delle persone anziane: a fine 2019 risultavano 986, soprattutto ergastolani al 41-bis e ultraottantenni, con diverse patologie. Sono drammatiche le numerose testimonianze dei famigliari di detenuti anziani e malati, affetti anche da Coronavirus o ad alto rischio, che non sono soggetti alle cure di cui necessitano e che, rimanendo in carcere, non solo rischiano di peggiorare ulteriormente, ma rappresentano anche una fonte di contagio per gli altri: è di pochi giorni fa la notizia di un ergastolano ultraottantenne morto nel carcere di Livorno per Covid, che ha scatenato il contagio di diversi altri detenuti. Un fatto che s’aggiunge alla denuncia della figlia di un altro carcerato, che, già con diverse patologie gravi e affetto da Coronavirus, è stato curato solo con il paracetamolo nell’istituto penitenziario di Torino. Tale situazione risulta inaccettabile, soprattutto alla luce della circolare DAP del 21 marzo con la quale, per l’emergenza sanitaria, era stato richiesto ai direttori degli istituti di segnalare all’autorità giudiziaria, “per le eventuali determinazioni di competenza”, la situazione clinica di detenuti affetti da particolari patologie e di età superiore ai 70 anni, per evitare una tragica situazione analoga alla strage nelle RSA lombarde a inizio pandemia. Circolare, questa, sospesa subito dopo le numerose polemiche televisive e l’enorme risonanza mediatica che aveva suscitato, in vista delle ricadute che avrebbe avuto su alcuni condannati per reati di stampo mafioso. Proposte che, invece, determinerebbero un reale miglioramento dell’attuale scenario provengono anche dalla politica: Roberto Giachetti, su proposta di Nessuno Tocchi Caino, ha presentato un disegno di legge che propone una liberazione anticipata “speciale”, consistente nell’introduzione della possibilità di aumentare da 45 a 75 giorni la riduzione prevista, per ogni 6 mesi di pena scontata, per i detenuti che tengono una buona condotta in cella. La diminuzione della pena in questione comporterebbe la fuoriuscita dalle carceri di migliaia di detenuti. Di fatto, come sottolinea il deputato di Italia Viva, il Decreto “Ristori” non risulta sufficiente per diminuire le presenze in carcere, e oltre al pericolo di contagio è anche presente il rischio che scoppino rivolte come a marzo. L’attuazione di queste proposte non solo porterebbe a un generale miglioramento delle condizioni quantitative delle carceri del nostro Paese, permettendo di poter fronteggiare situazioni potenzialmente disastrose; andrebbe anche a incrementare la qualità della detenzione, che, come è ricordato dalla nostra Costituzione all’art. 27 co. 3, non può avere solo una finalità punitiva e non deve mai consistere in trattamenti contrari al senso di umanità, per poter tendere alla rieducazione del condannato. |