Quando è nata l’esigenza di realizzare questo report e quali obiettivi vi siete dati?
Questo report fa parte di un progetto più ampio intitolato: “La detenzione dei migranti in Italia e in Grecia: salvaguardare i diritti umani ai confini meridionali dell’Europa”, realizzato dal network internazionale Border Criminologies, con base all’Università di Oxford e finanziato dalla Open Society Foundation. Lo scopo è di assicurarsi che ciò che accade nei luoghi di frontiera non rimanga nascosto, che le voci dei migranti vengano ascoltate e che gli attivisti e i gruppi di solidarietà ricevano le informazioni e il sostegno necessari per trasmettere le evidenze raccolte a un pubblico non solo nazionale ma globale. Per fare ciò, all’inizio del 2020 è stata lanciata una mappa interattiva, Landscapes of Border Control, che rappresenta la Grecia e l’Italia e il modo in cui vengono trasformate dalla presenza dei migranti. È nel contesto di questo lavoro, e dell’attivismo contro i centri di detenzione e il razzismo istituzionale, che si situa il nostro incontro ed è lì che è nata l’idea del report. Il report si concentra sul periodo del lockdown in Italia (9 marzo-18 maggio 2020). La nostra preoccupazione si è subito rivolta all’impatto del Covid-19 sulle persone illegalizzate e su quelle detenute nei Cpr. Ci è parso ovvio che il confinamento forzato di persone migranti, così come altre forme di incarcerazione, aumentassero il rischio del contagio. Sovraffollamento, scarsa igiene, accesso ridotto a cure mediche e carenza di canali di informazione sono solo alcuni dei problemi che caratterizzano queste strutture.
Qual è stato il vostro metodo di ricerca e da chi è costituita questa rete che svolge attività di sostegno, monitoraggio e sensibilizzazione a favore dei detenuti nei Cpr?
In un momento in cui era impossibile fisicamente entrare nei centri, l’unico modo era basare la nostra analisi su fonti secondarie. Una risorsa cruciale sono stati i bollettini pubblicati dal Garante nazionale Mauro Palma. A questi dati abbiamo affiancato informazioni raccolte da siti indipendenti e blog di vari gruppi attivisti che ricevevano e pubblicavano informazioni dalle persone detenute. In alcuni casi abbiamo contattato direttamente, per telefono e via Skype, i gruppi locali di solidarietà e gli avvocati in prima linea nella difesa delle persone detenute. Le informazioni da loro fornite sono state essenziali, anche perché spesso hanno evidenziato le lacune e contraddizioni presenti nelle dichiarazioni ufficiali. Infine abbiamo contattato i garanti regionali e comunali, ma molti purtroppo non ci hanno risposto. Altri però sono stati fondamentali per acquisire informazioni altrimenti difficili da reperire. I garanti sono stati attori importanti in questo periodo in quanto tra i pochi a poter entrare in queste strutture a fini di monitoraggio. Nell’analisi di questo materiale, così come nella scrittura del report, abbiamo scelto di privilegiare il punto di vista delle persone detenute, come emerge dalle scarse testimonianze che siamo riusciti a raccogliere.
A ogni Centro di detenzione amministrativa avete dedicato un approfondimento diviso in due parti. Nella prima ne ricostruite la storia, soffermandovi sul contesto urbano, la forma architettonica e la sua gestione, per poi raccontare i fatti più importanti che vi sono accaduti all’interno. Nella seconda ricostruite cosa è successo durante la prima ondata epidemica, esaminando il numero di detenuti presenti, le misure di contenimento adottate e le scelte dei giudici di pace in merito alla convalida o al prolungamento della detenzione. L’identità di questi luoghi, che vengono aperti e chiusi più volte, muta nel tempo diventando sempre più opprimente e ostile.
Già da prima della pandemia, le testimonianze dei/lle detenuti/e facevano emergere come le condizioni di vita nei Cpr fossero caratterizzate da un costante abbandono, tale da rendere la vita delle persone all’interno completamente instabile. L’incertezza è stata spesso evidenziata come metodo di governo e strategia per gestire questi luoghi. Un’incertezza e opacità che rende confuso ciò che accade all’interno e contribuisce a tenere questi luoghi lontani dal dibattito pubblico. Lo scoppio della pandemia e il blocco dei rimpatri, che non ha portato alla chiusura (almeno temporanea) dei Cpr come successo in altri paesi, hanno reso la situazione di abbandono più evidente e drammatica. In tutti i centri, da Torino a Palazzo San Gervasio, da Gradisca a Caltanissetta, i detenuti e i gruppi di solidarietà hanno denunciato la totale o parziale mancanza di informazioni sul virus e di misure e materiale igienico-sanitario per prevenire il contagio. Il centro di Gradisca d’Isonzo è stato in questo senso emblematico. Riaperto nel 2019 dopo sei anni di chiusura tra le felicitazioni della questura per le innovazioni militari apportate, tra cui duecento telecamere, cinquanta militari e trenta poliziotti, il centro è stato il più colpito dal virus. Questo ingente dispositivo di sicurezza non è bastato a “proteggere” le persone al suo interno. Il primo contagio è avvenuto a seguito del trasferimento di un detenuto dal carcere di Cremona a fine marzo: pochi giorni dopo l’uomo è risultato positivo. A fine aprile, dopo che cinque nuovi casi sono stati riscontrati, i detenuti positivi hanno deciso di muovere i loro materassi fuori dalle celle, visto che all’interno non era possibile garantire la distanza di sicurezza, e hanno dormito nel corridoio. Episodi simili, nonché resistenze e repressioni, si sono verificati in tutti i centri e continuano a verificarsi anche nei centri appena riaperti, come è successo negli ultimi mesi nel Cpr di Milano, riaperto a settembre e acclamato come indistruttibile (ma poi devastato dalle prime rivolte) e iper-controllato. In particolare, dopo l’estate, il sistema di funzionamento dei Cpr ha subito un ulteriore cambiamento, soprattutto per quanto riguarda la gestione dei migranti provenienti dalla Tunisia, stato con cui l’Italia ha rinnovato un accordo di rimpatrio. Bloccati sulle navi quarantena al loro arrivo in Italia, un numero altissimo di cittadini tunisini sono stati sistematicamente trasferiti in alcuni Cpr (in particolare Milano e Roma per la loro vicinanza a aeroporti internazionali) e deportati nel giro di una settimana attraverso una procedura accelerata. Prive di qualsiasi informazione circa i loro diritti sul territorio italiano ed europeo, spesso impossibilitati a parlare con un avvocato e a chiedere protezione internazionale, queste persone vengono rimpatriate ancora prima di avere messo davvero il piede all’interno del nostro paese. Alla luce di questi avvenimenti sembra che il Cpr si stia estendendo anche al di fuori delle proprie mura, ovvero che, supportata da nuove logiche igienico-sanitarie, la detenzione come misura di gestione della “mobilità indesiderata” stia proliferando in luoghi e forme non ufficiali, contribuendo a creare un sistema di accoglienza e gestione della mobilità a carattere altamente carcerario.
Un altro aspetto che emerge dal vostro lavoro riguarda la gestione dei centri. Così come le strutture architettoniche, anche questa è cambiata nel tempo e sta diventato sempre più un affare per società specializzate.
Inizialmente la gestione dei Cpr era delegata principalmente alla Croce Rossa Italiana, in una sorta di monopolio, poi dall’inizio degli anni Duemila è stata sempre più esternalizzata verso soggetti privati, anche transnazionali, che si occupano di progetti di varia natura, non per forza inerenti alla sfera delle migrazioni. In un primo momento la strategia governativa era finalizzata a legittimare politicamente l’esistenza di questi luoghi, anche attraverso il coinvolgimento di attori umanitari rappresentativi del sistema d’accoglienza italiano. L’obiettivo era mostrare alla società civile un’immagine alterata della natura dei centri di detenzione amministrativa, una “commistione tra umanitarismo e detenzione” come lucidamente affermato da Alessandra Sciurba in un suo libro. Oggi ci troviamo di fronte a una situazione ancora più intricata, perché in diversi casi gli enti gestori sono vere e proprie multinazionali, con tutte le implicazioni che ciò comporta. L’esempio del Cpr di Torino in corso Brunelleschi è esplicativo in tal senso. La sua gestione è affidata a un tandem composto dalla società francese Gepsa e dalla cooperativa italiana Acquarinto. La prima, un’impresa che si occupa della gestione sia di diverse carceri francesi che di vari Cra (gli analoghi francesi dei nostri Cpr), è una controllata dell’attuale Engie (ex Gdf-Suez), colosso francese nella produzione e distribuzione di energia elettrica, che tende a diversificare il suo operato occultando gli investimenti più “imbarazzanti”. Acquarinto è invece originaria di Agrigento e si occupa principalmente di servizi e accoglienza. È dunque facilmente intuibile come questo anomalo consorzio sia in realtà la vera forma dei Cpr, ovvero luoghi che di “accogliente” hanno solo la facciata con cui vengono narrati, mentre l’essenza non è molto distante da una gabbia qualunque. Altro esempio significativo è quello del Cpr di Macomer, cittadina in Sardegna dove il centro di detenzione fu costruito anche grazie a un accordo tra il ministero dell’interno e le autorità locali, con la promessa di un ritorno economico per un contesto impoverito e senza alcun investimento da anni. Il paradosso sta nel fatto che il Cpr sardo è gestito da Ors Italia, una multinazionale dalla complessa struttura societaria con ramificazioni in Svizzera e Regno Unito, fino a fondi pensionistici statunitensi e investimenti governativi sauditi, come ricostruito minuziosamente da Valori.it. L’ultimo esempio nel report è quello di Palazzo San Gervasio, in provincia di Potenza, dove al comando si trova Engel Italia, finita agli onori della cronaca nel 2014 per gli abusi commessi in uno Sprar a Paestum, dove gli operatori avevano minacciato gli ospiti con una pistola. Adesso possiamo affermare, amaramente, che hanno trovato una collocazione più idonea alla loro indole. Ultimissime parole riservate al nuovo ente gestore di via Corelli a Milano, la vercellese Versoprobo, che oltre ad avere cominciato a recludere i migranti, dopo avere principalmente operato nel settore dell’accoglienza, si è recentemente lanciata nel campo del turismo, assumendo la gestione di stabilimenti balneari in diverse regioni italiane. In modo similare la cooperativa sociale Edeco, ente gestore a Gradisca d’Isonzo, alterna le gabbie del Cpr con le attività negli asili nidi e nelle scuole materne della provincia padovana.
In questi anni i migranti detenuti hanno messo in atto innumerevoli forme di protesta, atti di autolesionismo e tentativi di fuga, alcuni dei quali conclusi tragicamente.
Tante persone che sono state sia in carcere che nei Cpr, così come studiosi di entrambi i luoghi, affermano che quella dei Cpr è un’esperienza peggiore di quella degli istituti penitenziari. Le proteste avvengono settimanalmente, i tentativi di fuga sono meno frequenti, ma sono episodi che sconvolgono la vita all’interno dei centri, perché spesso coinvolgono la gran parte dei detenuti. Proteste e tentativi di fuga, in risposta ai trattamenti inumani a cui i detenuti sono sottoposti, sono stati sempre repressi violentemente dalle forze di polizia. Come nel caso di Palazzo San Gervasio, dove la prima protesta nel periodo di pandemia è avvenuta in concomitanza con le rivolte nelle carceri. Tra il 10 e l’11 marzo, le forze di polizia all’interno del Cpr hanno dovuto chiedere rinforzi da altre città per sedare un tentativo di fuga collettivo messo in atto dai detenuti. Di seguito, le forze dell’ordine hanno perquisito tutte le celle, sequestrando delle corde intrecciate e degli arpioni in alluminio artigianali da utilizzare per la fuga. Contro le violenze subite, i detenuti hanno cominciato uno sciopero della fame il 15 marzo che è stato supportato da parenti e amici all’esterno. Come dimostrato anche da questo episodio, le tecniche di autolesionismo (siano esse scioperi della fame o altre forme di violenza su se stessi) rimangono comunque il tentativo ultimo quando questi luoghi rimangono invisibili a tutto. È il caso del tentativo di suicidio nel centro di Macomer. Un ragazzo, detenuto dal 2 febbraio, dopo il terzo rifiuto alla sua uscita opposto dal giudice di pace, si è lanciato da uno dei muri del centro, alto cinque metri. Dopo essere stato portato in elicottero all’ospedale, il ragazzo è stato riportato nel centro, dove è rimasto. Arrivato in Italia nel 2015, aveva lavorato come muratore e giardiniere e viveva con una famiglia locale che lo aveva “adottato” e dove sarebbe potuto andare a stare come misura alternativa alla detenzione. Dopo che il suo permesso di soggiorno non era stato rinnovato a inizio anno, il ragazzo si è trovato rinchiuso dentro al Cpr. Prima del tentativo di suicidio, il suo avvocato aveva portato al giudice una proposta di lavoro che il ragazzo aveva ricevuto, un contratto abitativo e la petizione, lanciata dai suoi “familiari”, e firmata da centinaia di persone.
Le condizioni dei migranti sono peggiorate con l’epidemia di Coronavirus e le norme di contenimento che ne sono seguite. Gli appelli per la chiusura dei centri e il rilascio delle persone detenute non sono stati ascoltati e, senza un piano nazionale, le decisioni sono state prese in modo discrezionale e localmente.
C’è stato un ritardo delle istituzioni competenti nell’intervenire per prevenire possibili focolai interni ai Cpr. Le prime circolari a inizio e metà marzo dirette alle prefetture erano molto generiche e solo il 26 marzo il ministero degli interni ha individuato una serie di misure di contenimento del contagio. In moltissimi casi queste indicazioni sono rimaste sulla carta. Di recente un parlamentare di un partito di destra ha denunciato le condizioni dei “poveri” poliziotti nel corso di un volo di espulsione giunto in Tunisia, poiché una volta giunti a destinazione si è scoperto che una delle persone rimpatriate era risultata positiva a un tampone effettuato prima del volo. Inutile dire che la positività della persona rimpatriata, così come il luogo dove possa essere stata contagiata, sia stato totalmente irrilevante per il governo. Durante il primo lockdown, molti hanno plaudito al comportamento del governo spagnolo che ha temporaneamente chiuso i propri centri di detenzione amministrativa e liberato le persone detenute (anche se solo temporaneamente). Per molti questa è stata la dimostrazione che alternative alla detenzione amministrativa possono esistere. Noi invece abbiamo guardato i fatti rovesciando questa interpretazione, ovvero non vi è alcuna alternativa possibile all’esistenza dei Cpr, se non la totale eliminazione di ogni forma di carcerazione. Sì, perché non si può trattare di Cpr senza interrogarsi sull’esistenza delle carceri stesse e di qualsiasi altra struttura chiusa. Questo può essere il momento opportuno per riaprire una riflessione globale sul tema.
Nonostante la campagna nazionale LasciateCiEntrare e l’impegno di numerosi attivisti e associazioni che denunciano illegalità e violenza presenti nei centri, siamo ancora lontani dalla chiusura di queste strutture. Al contrario assistiamo alla nascita di nuovi centri e a una narrazione istituzionale che legittima la loro esistenza.
La pandemia ha dato la possibilità, in contesti come la Spagna di cui parlavamo prima, di ripensare l’esistenza di questi centri, o meglio ancora la loro chiusura. In Italia, invece, i centri sono rimasti aperti e le logiche igienico-sanitarie di confinamento hanno incentivato pratiche di detenzione selettiva, già in atto prima della pandemia. Durante la pandemia, nei Cpr sono rimaste principalmente due categorie di detenuti: i “pericolosi” e i “vulnerabili”. Si è andato così consolidando il nesso umanitario-detentivo che da sempre caratterizza (a intensità sempre crescente) la logica di governo di questi luoghi. La pandemia ha rinforzato la pratica per cui a essere detenute sono le persone “socialmente marginali”. Quello che è successo a Torino racconta bene questa pratica. Nella notte del 17 marzo, delle persone senza fissa dimora e senza documenti sono state prelevate a Bolzano durante un raid della polizia e trasferite dentro il Cpr di corso Brunelleschi, sebbene il Cpr di “zona” fosse quello di Gradisca. Lo stesso Cpr di Torino è stato poi utilizzato per molti trasferimenti di persone provenienti dal carcere. Le informazioni che ci hanno portato a formulare queste ipotesi, però, sono frammentarie e non possono raccontare interamente cosa succede all’interno di questi centri. Questo perché la loro impenetrabilità è diventata totale durante il lockdown. Gli accessi di avvocati e associazioni di supporto, così come di familiari e amici, sono stati in parte o del tutto bloccati, e solo in alcuni centri l’alternativa della video-chiamata è stata resa disponibile. Laddove esistono reti territoriali più strutturate il monitoraggio è stato possibile grazie a contatti diretti con i detenuti, ma in altri luoghi – si pensi al centro di Macomer, aperto a inizio 2020, o a Bari, dove è stato quasi impossibile raccogliere informazioni – il silenzio regna sovrano. Il risultato delle scelte governative e del silenzio mediatico e istituzionale è sotto i nostri occhi. Puntando su una nuova categoria (i tunisini, ossia detenuti per i quali esistono accordi sul rimpatrio) per rilanciare l’efficienza dei Cpr, la ministra Lamorgese si è inserita nel solco delle riforme introdotte dal suo predecessore Minniti: si rimpatriano le persone che molto probabilmente verranno raggiunte da un decreto di espulsione. Dopo i “vulnerabili” e i “pericolosi”, a finire nei Cpr (anche se per pochi giorni) sono i “contagiosi”. Si intravede quindi in tutta la sua pervasività l’impatto che la pandemia ha – e avrà – sulle logiche che governano la detenzione. |