In Italia ci sono circa 7mila detenuti in più rispetto ai posti letto disponibili. I numeri di questi ultimi giorni parlano di un incremento esponenziale del numero di contagi in carcere, sia tra le persone detenute che tra il personale. Dalla prima ondata di pandemia a oggi, i contagi sono avvenuti anche tra le persone in isolamento al 41bis e hanno coinvolto alcuni bambini, ristretti con le madri. A marzo in molte prigioni sono esplose delle rivolte, durante le quali sono morti 13 detenuti. Circa un mese fa in diversi istituti penitenziari sono partiti gli scioperi della fame. La causa principale è sempre il sovraffollamento delle carceri. Ne parla il coordinatore dell’osservatorio di Antigone sulle condizioni di detenzione, Alessandro Scandurra.
Quanti sono al momento i positivi nelle carceri?
Attualmente dovrebbero essere circa 800 i detenuti positivi e più di 800 gli agenti. A differenza della prima ondata, da una settimana, il Ministero della Giustizia ha iniziato a pubblicare i dati dei contagi. Durante la prima ondata facevamo affidamento su ciò che comunicava il Garante Nazionale dei diritti dei detenuti, che pubblica regolarmente un bollettino. Noi di Antigone, invece, abbiamo creato una mappa sul sito dell’associazione, in cui aggiorniamo le notizie relative a contagi, detenuti, agenti. Sono morti, durante la seconda ondata, già quattro detenuti più un medico penitenziario di Secondigliano. Stiamo registrando numeri maggiori rispetto alla prima.
Il decreto Ristori ha previsto delle misure per arginare i contagi?
Il decreto Ristori non sta dando grandi effetti. Mentre durante la prima ondata la popolazione detenuta si è ridotta di più di 7mila persone, da fine ottobre, quindi da quando è stato approvato, la popolazione detenuta è calata di 500 persone in tutto. Però è anche vero che a fine febbraio c’erano più di 60mila persone ristrette. La popolazione detenuta è scesa molto con le misure istituite nella prima ondata, è risalita di poco durante l’estate, ora sta scendendo leggermente. Ma siamo molto lontani dai numeri antecedenti alla stagione estiva.
In quali carceri la situazione contagi è più grave?
I numeri sono alti in vari istituti. A Poggioreale (Napoli) e Tolmezzo (Torino) c’è una situazione particolarmente grave. Teramo è rientrata, Sulmona ha numeri alti di contagi. Ci sono positivi in oltre 70/80 istituti. Fanno eccezione posti come San Vittore dove i casi sono tantissimi, ma solo perché vengono portati i detenuti positivi da tutta la Lombardia. Non è quindi un’emergenza di quell’istituto, ma è quell’istituto che si fa carico di gestire un’emergenza di altre zone.
Siete riusciti a continuare i monitoraggi anche durante la pandemia?
Non siamo stati autorizzati fino a fine agosto. A settembre e ottobre abbiamo fatto delle visite, quando con novembre i contagi sono risaliti, abbiamo smesso. Speriamo di riprendere in questo mese di dicembre. Nel frattempo abbiamo diverse fonti attendibili, ci scrivono i familiari e i nostri volontari che hanno notizie dai singoli istituti. Sfruttiamo i vari canali di informazione, di cui i principali sono i familiari: ci cercano molto, sono preoccupati perché è tutto strano in questo momento in carcere, chiedono indicazioni su come comportarsi e nel frattempo ci aggiornano.
Cosa andava fatto per evitare questa situazione?
Quello che è stato fatto, ma in maniera più netta e veloce. Le misure di prevenzione, come per esempio i protocolli interni per la gestione di positivi, introdotte a maggio, sarebbero serviti a marzo. La premessa che va comunque fatta è che il carcere non ha sofferto molto, ha sofferto un po’, non di più del resto del paese, ovvero i numeri dei contagi sono stati paragonabili alla popolazione esterna. I buchi principali sono quelli relativi alla normativa introdotta. Per esempio, i destinatari sono stati tutti i detenuti con una serie di restrizioni, ma non c’erano misure ad hoc per persone oltre una certa età o con patologie pregresse. Sarebbero state utili. E poi è importante far diminuire la popolazione detenuta soprattutto per avere spazio, non solo per mantenere ordinariamente un minimo di distanza tra le persone, ma anche per gestire gli isolamenti. Se per esempio un istituto ha 15 persone da isolare, ha bisogno di 15 celle libere. In particolare era importante far uscire le persone che in caso di contagio rischiavano di più. Invece le misure adottate dal governo sono state “erga omnes”, non tarate su questo target. Per fortuna nel nostro ordinamento ci sono le stesse misure sia per le persone anziane che per quelle con patologie, così in qualche modo le persone sono uscite attraverso le misure nuove e quelle vecchie.
Come vengono eseguiti i controlli e i monitoraggi sanitari all’interno delle carceri?
I detenuti non entrano più direttamente nella sezione detentiva. Dopo l’arresto, si viene portati in un reparto di isolamento dove si trascorrono i 14 giorni di quarantena, di isolamento preventivo. Questo è un problema, perché se pensi a un uomo che viene arrestato in una città come Roma, dove si realizzano molti arresti, i primi giorni di reclusione li trascorre in un altro istituto, dove ci sono sicuramente più spazi, poi viene ritrasferito. Si tratta di un problema organizzativo notevole, però con il risultato che nessuno arriva in sezione con la capacità di contagiare. Su questo punto c’è molta attenzione. Invece non sono informato su quanti tamponi periodici si fanno, anche perché spetta all’Asl e può quindi differire da istituto a istituto e a seconda della regione. Per quello che ho visto io, i detenuti stanno senza mascherina, gli agenti la portano sempre.
Che partecipazione c’è agli scioperi della fame?
Noi questo non lo sappiamo. Ci sono state diverse rivolte con 13 morti. In questo momento secondo me, gli scioperi della fame non è che spaventino più di tanto il personale stesso. Non abbiamo avuto notizie specifiche e nemmeno contatti dai familiari su questo fronte, mentre durante le rivolte erano tantissimi.
Perché questi scioperi?
Lo sciopero della fame è una specie di protesta abbastanza diffusa nelle carceri, ogni anno ce ne sono migliaia individuali, è uno dei pochi modi per protestare e lamentarsi. In questo momento i diritti dei detenuti sono compressi enormemente da un sacco di punti di vista. In realtà, lo sono sempre stati, non è una popolazione a cui stiamo normalmente attenti. Il detenuto oltre ad avere diritto a mangiare e a bere, avrebbe diritto a essere curato, all’istruzione e al lavoro. Con la pandemia, il carcere è rimasto indietro rispetto all’esterno, la vita si è un po’ fermata. I detenuti fanno la chiamata generica o la videochiamata con i familiari e basta, prima c’era il lavoro, la scuola, le attività sportive. Un conto sono due mesi di fermo, ma adesso è diventato davvero pesante. Tuttavia il vero problema rimane quello legato alla salute. Molte persone detenute faticano ad avere accesso alle cure, i medici faticano a arrivare, fare anche un’ecografia fuori è diventato impossibile. Tutto ciò genera proteste.
Come si stanno muovendo le famiglie dei detenuti per cercare di tutelare i diritti dei loro parenti?
Si scrive al proprio avvocato, al Garante o a noi di Antigone. È un sistema realmente in crisi quello penitenziario. Ai familiari che chiamano nelle carceri per avere più notizie, non viene detto che le loro richieste sono legittime ma non fattibili in questo momento, succede che non ci siano proprio risposte e questo crea tensione. Nel caos non si riusciva a informare i familiari, cosa che ha creato tensioni inutili e anche pericolose, durante la prima ondata. Sono morte persone e sono state distrutte strutture, tutto ciò anche a causa del panico comprensibile, ma non ben gestito.
L’amministrazione penitenziaria cosa sta facendo?
C’è sicuramente un lavoro quotidiano di gestione di problemi concreti. Grandi riorganizzazioni complessive non mi pare di averle viste così come grandi lezioni di formazioni di personale. Si tratta più di correre appresso all’emergenza, di un’azione reattiva più che di programmazione e pianificazione strategica. Temo sia quello che sta accadendo non solo in carcere, ma in diversi contesti.
Sembra che una parte dei famosi miliardi stanziati dal Recovery Fund andranno al sistema penitenziario. Si parla di circa 600 milioni da utilizzare per costruire nuove strutture detentive. È una soluzione?
Tutte le volte che si parla di costruire nuove carceri non lo si fa mai. Lo sanno tutti. Ora abbiamo un problema imminente, ma generalmente in Italia per costruire nuove strutture ci vogliono 20 anni dall’apertura del bando. Se anche il prossimo istituto fosse costruito in soli 5 anni, il problema del sovraffollamento del Coronavirus non sarebbe risolto. Sono cose che si dicono periodicamente ma non si realizzano mai. Chi le dice già lo sa. Nuove carceri sono l’ultima delle priorità. I problemi reali sono altri, nel nostro paese abbiamo troppa custodia cautelare, troppe pene brevi che potrebbero essere gestite diversamente, poi abbiamo carceri messe male su cui andrebbero fatti investimenti e manutenzione. In più, ci sono pochi educatori, pochi direttori. Anche per questo mi chiedo perché costruire nuove carceri, se non si è in grado di dotare di personale dignitoso quelle che ci sono. |