«L’ergastolo è una pena costituzionalmente illegittima; è legittima nella esecuzione solo attraverso la valvola di sicurezza della liberazione condizionale. Al contrario, la reclusione è una pena legittima nella proclamazione ma illegittima nella esecuzione soprattutto a causa del sovraffollamento in carcere. In questo periodo, al problema del mancato rispetto della personalità, la pandemia aggiunge quello della salute del detenuto e pubblica. Il sovraffollamento in carcere rischia di far prevalere il diritto alla sicurezza (illusoria) della collettività su quello della salute del singolo perché lo obbliga ad un contatto che favorisce il contagio, è vietato per chi vive fuori dal carcere ed è incostituzionale». Giovanni Maria Flick, ex ministro di Giustizia (governo Prodi I) e presidente emerito della Corte costituzionale, spiega al manifesto quali sono i nodi da sciogliere da parte dei giudici costituzionali che la prossima settimana – il 23 e il 24 marzo – risponderanno alla questione di legittimità sollevata dalla Cassazione sul “fine pena mai” riservato a quei 1250 ergastolani ostativi (i due terzi circa dei 1.790 condannati a vita, secondo i dati di Nessuno tocchi Caino) che non hanno alcuna speranza di tornare alla vita libera perché hanno scelto di non collaborare con la giustizia.
Professore, ad ottobre scorso la Consulta ha giudicato incostituzionale rifiutare a priori il permesso-premio agli ergastolani ostativi che non collaborano con la giustizia. Ha trasformato, in sostanza, la preclusione da assoluta a relativa, dando l’ultima parola al giudice di sorveglianza che dovrà valutare in concreto caso per caso se c’è stato ravvedimento da parte del condannato. Partendo da questa pronuncia , quali saranno gli ulteriori nodi da sciogliere da parte della Corte costituzionale?
Nel caso deciso allora, la presunzione che continuino i legami del condannato con il suo contesto criminale, derivante dalla mancata collaborazione, è stata ritenuta accettabile purché sia possibile superarla con altri elementi. La prossima settimana, il problema sarà stabilire se quella conclusione possa valere anche per la liberazione condizionale. Nella motivazione della sentenza di ottobre la Corte ha ricordato che stava parlando specificamente soltanto del problema dei permessi premio.
Dunque non c’è alcuna relazione tra i due quesiti?
Le due questioni possono essere trattate allo stesso modo ritenendo che in entrambi i casi una presunzione assoluta e superabile solo attraverso la collaborazione sia in contrasto con gli articoli 3 e 27 della Costituzione. Al contrario, la presunzione che allora è stata ritenuta vincibile per i permessi premio potrebbe non essere considerata più tale nel caso della liberazione condizionale. Ma potrebbero esserci molte altre soluzioni. Staremo a vedere; non è mio compito fare previsioni su cosa deciderà la Corte.
L’art. 27 della Carta dispone che le pene devono tendere alla rieducazione del condannato. Le chiedo allora se la collaborazione con la giustizia è la sola prova del «sicuro ravvedimento», considerato a torto o a ragione condizione necessaria per avviare alla rieducazione il condannato.
La collaborazione di giustizia, come la Corte ha già sottolineato con la precedente pronuncia, può significare tutto e il contrario di tutto. Si può decidere di non collaborare per paura, pur essendosi ravveduti; oppure al contrario di collaborare per conquistarsi la benevolenza dei giudici, pur non avendo interrotto i rapporti criminali. È un atteggiamento equivoco. Insomma, il sistema penitenziario costituzionale non consente l’introduzione di preclusioni assolute e vincibili soltanto attraverso un determinato comportamento. La stessa logica si potrebbe applicare anche al 41bis: se non collabori ti aspetta il carcere duro. Tutto questo è inoltre in rotta di collisione con il principio del nemo tenetur se detegere, «nessuno è obbligato ad autoaccusarsi». Un principio fondamentale del nostro sistema penale.
Professore, la Consulta però si è già espressa sull’ergastolo ostativo nel 1993 (sentenza n°306), nel 2001 (n°273) e nel 2003 (n°135) rigettando sempre l’incostituzionalità. Perché questa volta il verdetto potrebbe essere diverso?
Perché pian piano si è arrivati ad evidenziare che la nostra Costituzione si fonda sulla dignità. Ad esempio la Corte è arrivata a riconoscere una serie di spazi – i cosiddetti residui di libertà – che devono essere compatibili con la restrizione della libertà personale. La Corte è andata via via aprendosi progressivamente sul tema carcerario, fino alle recenti visite dei giudici costituzionali in carcere e ad alcune decisioni importanti (ad es. quella sulla proporzionalità della pena).
Molta strada è stata fatta anche grazie alle decisioni della Corte di Strasburgo?
Direi di sì, perché l’orientamento dominante nella Cedu è quello di verificare periodicamente se c’è stato un progresso nel percorso di rientro in società del condannato attraverso la pena carceraria.
L’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo proibisce la tortura e ogni trattamento inumano o degradante. La mancanza di speranza nel futuro rientra in questo tipo di trattamenti?
Speranza e fiducia sono i due pilastri che devono guidare il percorso di chi è recluso in carcere. Il condannato deve non perdere la speranza – sapendo che il futuro dipende anche da lui – e deve avere fiducia nel significato e nel risultato della pena. Sembra un paradosso ma non lo è. E questo è sancito nella nostra Costituzione, perché l’articolo 3 garantisce pari dignità sociale a tutti, compresi i “diversi” come i detenuti. Ecco perché, come molti e come la stessa Ministra, inizio a chiedermi se il carcere non debba essere sostituito quando possibile con altre pene non meno efficaci e drasticamente confinato ai soli casi estremi di violenza e di aggressività non altrimenti controllabili. La stessa Corte negli anni, con una serie di sentenze che hanno ampliato il suo campo visuale, è passata dal considerare tutte le funzioni della pena sullo stesso piano al reputare come prevalente, in linea di massima, la tendenza alla rieducazione. Che non è una rieducazione morale, ma la ri-responsabilizzazione. Infatti la giustizia sta cercando di evolversi verso un sistema non di tipo vendicativo o retributivo, ma di tipo riparatorio, che fra l’altro permetta di riaprire un dialogo tra la vittima e l’autore del reato.
Secondo alcuni pm antimafia, magistrati che da anni vivono sotto scorta, eliminare il 41 bis o l’ergastolo ostativo per gli associati alle cosche che non hanno mai collaborato con la giustizia è un modo per indebolire la lotta alle mafie. Cosa ne pensa?
Dobbiamo decidere a cosa dare la prevalenza: alla tutela della dignità o a quella della sicurezza, nell’illusione che basti chiudere i “diversi” in carcere per assicurarsi la sicurezza? La risposta non è scontata, neppure in Paesi che si considerano civili. Finché l’ergastolo ostativo era una misura eccezionale per pochissime persone, decisa all’indomani delle stragi di mafia del ’92; era comprensibile. Oggi però quella degli ergastolani ostativi è diventata una categoria. Ma è una libera scelta, quella del detenuto tra il carcere duro o a vita e la collaborazione con la giustizia? Questo argomento la Corte lo ha toccato ma non lo ha approfondito nella sentenza precedente.
Si potrebbe dire che c’è bisogno di un approccio più scientifico anche nel sistema giustizia?
Mah, io credo che la giustizia non abbia tanto bisogno di scienza o di tecnologia, che pure possono apportare grandi benefici all’organizzazione e all’amministrazione. La giustizia ha invece bisogno di cultura, di coscienza, di solidarietà e di eguaglianza: tutti valori costituzionalmente significativi |