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Così le autorità libiche e italiane hanno lasciato morire centinaia di migranti in mare

 

FONTE:The Submarine

 

Dalle carte dell’inchiesta di Trapani, pubblicate dal Guardian in collaborazione con Domani e Rai News, risulta chiaramente che l’Italia è sempre stata al corrente del disinteresse dei libici nelle operazioni di soccorso in mare

 

Il Guardian, in collaborazione con Rai News e con il quotidiano Domani, ha pubblicato alcuni documenti esclusivi che rivelano l’inerzia della Guardia costiera libica, che spesso non interviene a soccorrere le imbarcazioni in difficoltà che le vengono segnalate, causando naufragi e morti. Di cui anche le autorità italiane sono direttamente complici: non solo perché la cosiddetta Guardia costiera libica esiste in virtù degli accordi italo-libici del 2017, ed è finanziata e addestrata dall’Italia, ma anche perché molto spesso sono le stesse autorità italiane o europee a chiedere ai libici di intervenire in soccorso dei migranti.

I fatti raccontati nell’inchiesta risalgono al 2017. Il 16 giugno, ad esempio, la Guardia costiera italiana chiama quella libica per chiederle di intervenire in soccorso di almeno 10 imbarcazioni in difficoltà nelle loro acque territoriali. Il funzionario libico risponde: “Oggi è giorno libero, magari possiamo andare lì domani.” Risultato: durante quel weekend muoiono almeno 126 persone, e all’imbarcazione di una Ong che sta per arrivare sul posto viene proibito l’accesso alle acque territoriali libiche.

La conversazione, insieme a tante altre, si trova nelle 30 mila pagine di atti depositati nell’inchiesta della procura di Trapani sulle navi umanitarie delle Ong, indagate per collusione con i trafficanti. La stessa inchiesta è stata al centro delle polemiche nei giorni scorsi, dopo che lo stesso quotidiano Domani ha rivelato che i magistrati hanno intercettato e spiato diversi giornalisti, anche in conversazioni riservate con i propri avvocati, nonostante non fossero indagati. Emerge un dato di fatto: le autorità italiane sono sempre state perfettamente consapevoli dell’incapacità o del disinteresse delle autorità libiche per le operazioni di sorveglianza e salvataggio in mare, proprio mentre il governo Gentiloni — con Minniti al Viminale — lanciava la propria campagna contro le Ong.

L’ufficiale della cosiddetta Guardia costiera libica che avrebbe risposto di “ripassare domani” si chiama Massoud Abdalsamad, ed è stato coinvolto almeno in un altro caso simile: il 24 maggio 2017 due barche partite dalla Libia e trovatesi subito in difficoltà chiamano la Guardia costiera italiana per chiedere soccorso. La Guardia costiera italiana chiama Abdalsamad 55 volte senza ricevere risposta. In quell’occasione muoiono 33 persone.

Molti operatori e portavoce di diverse Ong raggiunti dal Guardian hanno riferito che in sostanza le autorità libiche erano praticamente impossibili da raggiungere, “a prescindere dal giorno della settimana,” secondo Francesco Creazzo di SOS Mediterranée. Secondo Ellen van der Velden, di Medici Senza Frontiere, “i ritardi nella comunicazione in mare […] hanno un costo umano inaccettabile,” aggiungendo che “il nodo, comunque, rimane il fatto che l’Ue stia dando priorità alla sorveglianza dei confini sulla ricerca e il soccorso.”

Dal 2017 non è cambiato molto: né l’atteggiamento delle autorità italiane ed europee né la loro fiducia nelle autorità libiche. Solo la settimana scorsa, il comandante della missione europea Irini Fabio Agostini, che dal 31 marzo monitora la Libia con mandato Onu per sorvegliare e possibilmente impedire l’arrivo illegale di armi, ha rilasciato una sconcertante intervista al Corriere della Sera sulla presunta affidabilità delle autorità libiche, in particolare su quelle addestrate dalle forze europee nel variegato programma di aiuti più o meno ufficiali erogati da Italia o Ue. Secondo Agostini, non ci sarebbero prove di comportamenti criminali “da parte dei circa 500 addestrati dalla missione Sophia o da quelli addestrati dagli italiani.” Il giorno successivo, il capo missione di Mediterranea Saving Humans Luca Casarini ha dichiarato che presenterà un esposto alla magistratura per chiedere se cooperare con la deportazione di oltre ventimila migranti in mare sia una cosa legale o un crimine. “È la prima volta che una missione internazionale ammette la cooperazione con la Guardia costiera libica.”

Anche Mario Draghi, che ha scelto la Libia come destinazione per la propria prima visita ufficiale all’estero, si è detto “soddisfatto” dell’operato della guardia costiera libica e ha rilanciato la cooperazione tra Roma e Tripoli, ignorando gli allarmi che arrivano dalle organizzazioni umanitarie e dalle Nazioni Unite, che da tempo chiedono di non considerare più la Libia un porto sicuro per lo sbarco dei migranti. Filippo Grandi, appena confermato nel ruolo di Alto Commissario dell’Onu per i rifugiati, si è detto ieri “molto preoccupato” per i respingimenti “inaccettabili” alle frontiere europee.

Del resto la “nuova Libia” magnificata da Draghi somiglia molto a quella vecchia, che emerge così drammaticamente dalle carte dell’inchiesta di Trapani. Soltanto pochi giorni fa, è stato scarcerato Abdurhaman al-Milad, detto Bija, considerato uno dei più pericolosi trafficanti di esseri umani del paese nordafricano, e noto alle cronache italiane per un suo viaggio segreto in Italia nel 2017. Scarcerato, e promosso: Bija ora è maggiore della guardia costiera libica.

Intanto nel Mediterraneo centrale va avanti una strage continua, che potrebbe essere evitata se fossero aperti canali legali di migrazione verso l’Europa, e se ci fosse un sistema di ricerca e soccorso in mare affidabile e sicuro. Ieri almeno 41 persone sono morte in un naufragio al largo di Sidi Mansour, in Tunisia. Ci sarebbero solo tre sopravvissuti, di origine ivoriana e guineana, che sono stati soccorsi dalla Guardia costiera tunisina. L’Unhcr e Oim stimano che dall’inizio di quest’anno siano morte circa 290 persone nel Mediterraneo Centrale.