Le immagini diffuse da Domani su ciò che avvenne il 6 aprile 2020 nel carcere di Santa Maria Capua Vetere e che il giudice per le indagini preliminari ha definito “una orribile mattanza” lasciano senza fiato. Vedendole e rivedendole, ho sperato che arrivassero da un luogo lontano: dalla Colombia in stato d’emergenza, da Myanmar dopo il colpo di stato. Invece, provenivano da un luogo distante neanche 200 chilometri da Roma. Come 19 anni prima a Bolzaneto, funzionari dello stato italiano hanno infierito su persone in loro custodia immaginando che quei comportamenti non sarebbero diventati pubblici o comunque confidando nell’impunità. Nel primo caso, immaginarono male ma confidarono bene.
L’impunità di Genova – Come già ricordato da Domani attraverso una serie di articoli sul ventesimo anniversario del G8 di Genova, nei confronti di persone inermi tanto alla scuola Diaz quanto nella caserma di Bolzaneto attrezzata a centro provvisorio di detenzione, venne praticata la tortura: pestaggi violentissimi (la “macelleria messicana” descritta dall’allora vicequestore di Genova Michelangelo Fournier), atti crudeli come lo spegnimento di sigarette sui corpi dei detenuti, umiliazioni degradanti. Sappiamo com’è andata a finire: col trionfo dell’impunità. Quella parola, tortura, ripetuta infinite volte nei dibattimenti giudiziari sui fatti di Genova non trovò spazio nelle sentenze perché nel codice penale ancora non era menzionata. E non sarebbe stata menzionata fino al luglio 2017 quando, grazie a un’ostinata campagna delle organizzazioni non governative, all’impegno di diversi parlamentari e a un’importante sentenza della Corte europea dei diritti umani dello stesso anno, il parlamento colmò un ritardo quasi trentennale e introdusse finalmente nell’ordinamento italiano il reato di tortura.
La legge sulla tortura – La legge non è perfetta: è ridondante e infarcita di locuzioni e aggettivi inutili come se il legislatore, dopo 28 anni e mezzo di continui ostacoli all’approvazione di un testo, si fosse arreso a votarne uno sperando che la sua ampollosità ne avrebbe reso problematica l’applicazione. Ma da allora la legge contro la tortura è stata applicata. Due processi, relativi a episodi avvenuti nelle carceri di Ferrara e San Gimignano, si sono chiusi con condanne per tortura.
Altre indagini sono in corso per presunte torture avvenute in altri istituti di pena italiani. C’è da sperare che la legge sarà applicata anche rispetto ai fatti, terribili, di Santa Maria Capua Vetere. Così lascia sperare la decisione del giudice per le indagini preliminari di disporre l’esecuzione di 52 misure cautelari, molte delle quali nei confronti di agenti della polizia penitenziaria, per vari reati tra cui, per l’appunto, torture pluriaggravate: l'”abbattimento dei vitelli”, come veniva descritta l’azione punitiva del 6 aprile 2020 nelle conversazioni tra gli agenti. Resta il fatto che c’è qualcosa, nel nostro paese, che da sole le leggi non saranno sufficienti a cambiare: stiamo assistendo, da anni, a una profonda erosione dell’idea di universalità dei diritti.
Ribadita nei comizi e amplificata praticamente ogni giorno sui social, sta diventando sempre più accreditata la pericolosa teoria che i diritti non siano innati ma si abbiano comportandosi bene. Si meritino, dunque. E poiché chi è in carcere si suppone si sia comportato male, non merita diritti, ne è automaticamente privato. Così diventa un “vitello da abbattere”.
Così accade che leader politici solidarizzino immediatamente con funzionari dello stato accusati di aver praticato torture e inequivocabilmente ripresi nell’atto di compierle. Sebbene accompagnate dal plauso dei social, si tratta di dichiarazioni irresponsabili che, oltretutto, procurano un danno enorme a tutti gli operatori delle forze di polizia che quotidianamente svolgono il loro lavoro, in condizioni spesso difficili, nel pieno rispetto dei diritti umani.
P.S. Per una drammatica coincidenza, le immagini di Santa Maria Capua Vetere sono state diffuse mentre erano da poco in rete le riprese di un brutale intervento dei carabinieri a Milano, all’alba del 27 giugno. Sebbene le ricostruzioni di quanto accaduto nei minuti precedenti siano parziali e contraddittorie, le manganellate che si vedono costituiscono comportamenti inaccettabili. |