E’ sempre punita penalmente l’attività di controllo a distanza dei lavoratori con le telecamere poste all’interno del luogo di lavoro. Il tema del controllo a distanza dei lavoratori è sempre un tema caldo, spesso oggetto di singolari interpretazioni e comunque molto dibattuto all’interno delle aule dei tribunali. In modo particolare, il tanto dibatutto Jobs Act (dlgs n. 151/2015), così come definito da una recente sentenza della Cassazione, non ha eliminato le sanzioni previste dal previgente Statuto dei lavoratori. Secondo la Suprema Corte, che ha riformato una sentenza di primo grado, vi è quindi continuità normativa fra la fattispecie abrogata prevista dagli articoli 4 e 38 della legge n. 300/1970 (lo Statuto dei lavoratori), ora abrogato, e quanto contenuto nell’art. 171 del Job Act. La Cassazione definisce che la continuità delle norme si pone in relazione poi con il dlgs n.196/03: il “Codice in materia di protezione dei dati personali”, per buona parte novellato. Come definito dalla Cassazione – terza sezione penale- con la sentenza n. 32234/2021, il monitoraggio dei dipendenti da parte del titolare dell’attività per mezzo delle telecamere è un reato, così come chiaramente definito dal Job Act.
Il processo e il ricorso in Cassazione – Nel caso oggetto dell’impugnativa alla Suprema Corte, il datore di lavoro aveva introdotto all’interno del proprio esercizio commerciale un sistema di videosorveglianza destinato, probabilmente, alla prevenzione dei furti. Detta attività, oltre a prevenire la sottrazione fraudolenta di merci da parte dei visitatori del punto vendita, andava a “controllare l’attività svolta all’interno dell’esercizio commerciale dagli addetti di vendita” (così come indicato nella sentenza della Cassazione). La questione che ha portato al processo è nata dal verbale redatto dagli Ispettori del lavoro, che avevano rilevato all’interno del locale commerciale la presenza di un sistema di videosorveglianza che non rispettava le prescrizioni per legge previste.
In primo grado, il giudice aveva mandato assolto il datore di lavoro dal reato previsto dall’art. 4 della legge n. 300/1970 (dallo Statuto dei Lavoratori, appunto) in quanto, così ha stabilito dal Tribunale, “avendo ritenuto che per effetto della entrata in vigore del dlgs. N. 196 del 2003 la condotta contestata non fosse più prevista dalla legge come reato”. Contro la sentenza di primo grado, il Procuratore Generale presso la Corte di appello ha interposto ricorso per Cassazione, osservando che la condotta penalmente rilevante determinata dal datore di lavoro non è stata abrogata.
La decisione della Suprema Corte – La Sezione terza penale della Cassazione nella sentenza n. 32234/2021, depositata in cancelleria lo scorso 26 agosto, ha determinato il ricorso come fondato e ha lo ha accolto. La Suprema Corte ha osservato che “anche a seguito dell’avvenuta abrogazione degli art. 4 e 38 della legge n. 300 del 1970, costituisce reato l’uso di impianti audiovisivi e altre apparecchiature per finalità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori, in quanto sussiste continuità normativa tra l’abrogata fattispecie e quella attualmente prevista dall’art. 171 in relazione all’art. 114 del dlgs n. 196 del 2003, come rimodulata dall’art. 23 del dlgs n. 151 del 2015, avendo la normativa sopravvenuta mantenuto integra la disciplina sanzionatoria”.
Secondo la Cassazione, quindi, il Job act (dlgs n. 151/15) ha mantenuto vivo il regime sanzionatorio per questa fattispecie previsto dallo Statuto dei Lavoratori che prevede: “é punita con le sanzioni di cui all’articolo 38 della legge n. 300 del 1970. Trattasi della pena dell’ammenda da lire 100.000 a lire un milione o con l’arresto da 15 giorni a un anno, con applicazione congiunta nei casi più gravi”. Gli ermellini della terza sezione, hanno così annullato la sentenza di primo grado che mandava assolto il datore di lavoro disponendo il riesame da parte del tribunale adito della posizione relativa all’utilizzo della videosorveglianza sui luoghi di lavoro. |