Ci sono altri agenti penitenziari da identificare per quanto riguarda il pestaggio di massa avvenuto il 6 aprile 2020 al carcere di Santa Maria Capua Vetere, per questo è in corso l’inchiesta bis da parte della procura della Repubblica.
Com’è noto, a compiere il blitz che ha, come dice l’accusa, comportato la tortura nei confronti dei detenuti del reparto “Nilo”, ha concorso non solo il personale interno, ma anche un’aliquota di personale del gruppo di supporto agli interventi, istituto alle dipendenze dell’allora Provveditore regionale Antonio Frullone. Ed è quello che è ancora da identificare.
Questo perché, come ha evidenziato il capo della procura, Maria Antonietta Troncone, «le unità di polizia penitenziaria proveniente dalle altre carceri, per lo più sconosciute ai detenuti di Santa Maria Capua Vetere ed attive nelle violenze, erano quasi tutte munite di caschi e dispositivi di protezione individuale, sicché l’identificazione delle persone resesi responsabili dei fatti contestati, bene immortalate dalle videoregistrazioni, risulta estremamente difficoltosa. Sono ancora in corso le indagini per individuare gli autori ancora ignoti e oggetto di un ulteriore provvedimento».
Ripercorriamo l’accaduto. Il 9 marzo 2020, un gruppo di 160 detenuti del reparto “Tevere” ( diverso da quello ove poi si consumeranno le violenze) del carcere di Santa Maria Capua Vetere, dopo aver fruito dell’orario di passeggio, rifiutava di entrare nel reparto, protestando per la restrizione dei colloqui personali imposta dalle misure di contenimento del contagio da Covid. Il 5 aprile seguiva una ulteriore protesta, operata da un numero imprecisato di detenuti del reparto “Nilo” e attuata mediante barricamento delle persone ristrette, motivata dalle preoccupazioni insorte alla notizia del pericolo di contagio conseguente alla positività di un detenuto al Covid. La
protesta rientrava nella tarda serata, anche mediante l’opera di mediazione e persuasione attuata dal personale di polizia penitenziaria del carcere e del magistrato di sorveglianza.
All’esito della seconda protesta, nella giornata del 6 aprile, veniva organizzata una perquisizione straordinaria, generalizzata, nei confronti della quasi totalità dei detenuti ristretti nel reparto Nilo del carcere di Santa Maria Capua Vetere. Ed è lì che si è verificata, come documentato in maniera incontrovertibile dai filmati della videosorveglianza, una vera e propria macelleria messicana.
Pochi giorni fa la procura di Santa Maria Capua Vetere ha depositato l’avviso di conclusione delle indagini preliminari nei confronti di 120 persone. La procura stessa, tramite un comunicato stampa, sottolinea che nel corso delle indagini «sono stati acquisiti elementi indiziari integrativi e accertate ulteriori ipotesi di reato, tra cui, in particolare, quella relativa all’omicidio colposo ai danni di Lamine Hakimi». Parliamo di un detenuto di 27 anni trovato morto un mese dopo i pestaggi. Secondo la tesi della procura, la sua morte potrebbe essere collegata agli eventi avendo ricevuto calci e pugni. Dopo il pestaggio, sarebbe finito in isolamento e avrebbe lamentato dolori alla nuca per tutto il tempo. Avrebbe assunto «in rapida successione e senza controllo sanitario – ricostruisce la procura– un mix di farmaci, tra cui oppiacei, neurolettici e benzodiazepine». Questo ne avrebbe cagionato la morte per arresto cardiocircolatorio, conseguente a un edema polmonare acuto. |