Il documentario di Javier Gómez Sánchez, che ha debuttato su una rete televisiva cubana la sera del 5 giugno 2021, scorre in modo agile e piacevole snocciolando in 52 minuti tutte le analisi e le proposte degli analisti di età e formazione diverse. Senza alcun dubbio, è un documento di grande valore che dovrebbe essere diffuso e visto da tutti.
Tra gli intervistati si trovano giornalisti e scrittori molto noti a Cuba come Iroel Sanchez o Rosa Myriam Elizalde; e poi psicologi, giovani studenti di giornalismo, giovani artisti cubani, eccetera. Insomma, punti di vista diversi della Cuba di oggi su Internet e sui social network digitali.
Si parla dell’inizio dell’informatizzazione a Cuba e dell’effetto bolla dei gruppi e dei “follower” su Facebook, del modo in cui l’intelligenza artificiale viene utilizzata per mostrarci ciò che un certo gruppo di interesse politico ed economico vuole che vediamo.
Alcune persone potrebbero decidere di smettere di guardare il documentario già nei primi minuti. Tra queste potrebbe esserci chi ha visto la serie Netflix “The great hack” o “Nothing is private”, dove si analizza il modo in cui vengono utilizzati i dati di Facebook e le emozioni degli utenti per mostrare loro cosa devono consumare.
Sicuramente, ne “La dittatura dell’algoritmo” si troverà un’analisi approfondita di come l’introduzione di Internet e dei social network digitali abbia impattato sul popolo cubano. “I cellulari sono il mezzo di comunicazione di massa più importante per le persone”, esordisce Jorge Luis Perdomo, oggi vice Primo Ministro della Repubblica di Cuba.
Ma nel resto del mondo? Come influiscono o hanno influito i cosiddetti “influencer” nei cambiamenti culturali e politici latinoamericani degli ultimi 10 anni?
Quanti utenti, dopo la massificazione di Internet, sono ancora convinti di scrivere e leggere quello che vogliono e per questo di essere liberi? Quanti – come spiega Rosa Míriam Elizalde – hanno la consapevolezza che nei social network digitali si generano “bolle di conforto” e che gli algoritmi generano camere di risonanza in cui alcune idee rimbalzano all’infinito generando scenari di disinformazione?
“Non ti stanno leggendo nel pensiero. Sei tu che istruisci gli algortimi con il tuo comportamento”, dice qualcuno, e mi ricorda quante volte ho sentito (e a un certo punto anche pensato) questa frase quando Facebook, Instagram, Google o Twitter ci mostrano la pubblicità dopo aver consultato un articolo che cercavo o un sito che parlava dell’argomento di cui sto discutendo.
Siamo davvero sempre pienamente coscienti, e che quindi non saremo bombardati da un’ideologia strisciante che a poco a poco ci indurrà a votare per qualcuno inventato apposta da qualche interesse colonizzatore del pensiero?
Nei paesi in cui viviamo nel più puro e duro capitalismo, anche se chi ci governa sembra abbia uno sguardo progressista o addirittura più vicino al socialismo, la strategia non mira direttamente e pienamente alla colonizzazione ideologica (ormai questa battaglia è parzialmente o totalmente vinta), ma più subdolamente mira a perfezionare strategie commerciali che permettano, attraverso algoritmi di intelligenza artificiale e analizzando le informazioni che diamo loro affinché sappiano come riescono a farci consumare i prodotti e i servizi che non erano o non dovrebbero essere nella nostra lista di priorità.
Sì, avete letto bene: ho detto “gli diamo” perché nessuno ci obbliga a dire alle multinazionali che stanno dietro ai social network digitali cosa abbiamo mangiato, quali vestiti ci piace indossare o come ci sentiamo: lo pubblichiamo noi stessi sfruttando le supposte enormi libertà di fare e dire ciò che vogliamo. “Vedo, leggo e interagisco solo con chi scelgo”, dicono milioni di utenti.
Il controllo sociale esercitato dai social network digitali viene analizzato in modo molto chiaro e approfondito. Indubbiamente, alla fine del documentario restiamo con più domande che risposte. Penso che questo sia l’obiettivo più importante che il suo regista si fosse prefissato, e devo dire che ha colto molto bene nel segno.
Se cerco di portare a queste latitudini parte dell’analisi fatta ne “La dittatura dell’algoritmo”, devo dire che proprio come a Cuba, si dirigono risorse materiali e umane in modo che, con il supporto dell’intelligenza artificiale e dei metadati ricavati dai nostri profili, nella testa degli utenti si formi un’opinione “critica” sul governo e sulle libertà individuali.
A Cuba questo lavoro si svolge da molto tempo con l’obiettivo di insinuare l’idea che la gente non sia completamente libera, che il brutale blocco economico dell’isola non esiste. Questo vale per Cuba, ma anche per il Venezuela, per la Bolivia o per qualsiasi altro paese in cui sorgono movimenti sociali o governi che possono infastidire la cultura o l’ideologia egemonica che l’imperialismo vuole imporci.
Come già detto in altre occasioni, credo che oggi non basti mettere una “faccia pulita” o, al contrario, l’immagine del vecchio con la barba e il cilindro con lo slogan “I want you” dell’imperialismo.
Le cinque grandi aziende tecnologiche GAFAM – Google, Amazon, Facebook, Apple e Microsoft – sono l’imperialismo di questo secolo. Gestiscono più soldi dei Paesi più ricchi e potenti, praticano politiche monopolistiche ancora più dure di quelle degli stessi Paesi imperialisti e hanno la capacità potenziale di decidere chi occuperà il seggio presidenziale in un determinato Paese.
Ovviamente, non si può ignorare il potere degli Stati Uniti, della CIA, la sua ingerenza nell’agenda dei governi in gran parte del mondo. Le GAFAM sono al suo servizio e viceversa.
La battaglia contro-egemonica delle idee ci pone in enorme svantaggio, ma non abbiamo altra scelta che combatterla se vogliamo essere veri attori e costruttori del nostro futuro, se vogliamo vivere in una società dove la giustizia sociale non sia una mera teoria politica, un mondo dove ognuno di noi sia costruttore del nostro destino. |