Non si può cancellare la violenza in carcere: è inscritta nello statuto delle istituzioni totali. Tra le quali il carcere è la più estrema. Santa Maria Capua Vetere è la regola, non è un’eccezione. Diceva Filippo Turati al Parlamento italiano nel 1904: “Noi crediamo di aver abolito la tortura, ma i nostri reclusori sono essi stessi un sistema di tortura; noi ci vantiamo di aver cancellato la pena di morte dal codice penale comune, ma la pena di morte che ammanniscono, goccia a goccia, le nostre galere è meno pietosa di quella che era data per mano del carnefice”. Dopo oltre un secolo non è cambiato nulla. Il carcere non appartiene alla categoria della giustizia ma a quella della vendetta.
Negli istituti di pena sono sempre esistite le squadrette di picchiatori addestrati a reprimere ogni forma di protesta, individuale o collettiva, dei detenuti. La quotidianità delle prigioni. Ma periodicamente appare un’altra versione: la banalità del male di Hannah Arendt. A Santa Maria Capua a Vetere non sono entrate in azione le squadrette, come ricorda Adriano Sofri, ma gli agenti comuni. I vicini di casa. I torturatori argentini di Miguel Benasayag.
O il grigio funzionario Adolf Eichmann, che rivendicava di aver soltanto obbedito agli ordini. Ad Auschwitz. Sopra loro, a legittimarli, c’erano i gerarchi nazisti e i generali argentini. O, nella versione tragica del ridicolo, l’incorreggibile collezionista di divise Matteo Salvini e Alfonso Buonafede, il peggior ministro della Giustizia del dopoguerra, che pure non ne ha annoverati pochi in classifica.
O, se vogliamo, il miglior ministro dell’ingiustizia. Ricordiamo ancora l’oscena esibizione del duo con grottesco medagliere a mostrare tronfi il corpo di Cesare Battisti. La banalità del male è sempre uguale e immutabile: per rimanere a tempi vicini, a Pianosa e all’Asinara nel 1992, a Sassari nel 2000, a Bolzaneto nel 2001, a San Gimignano nel 2018, per non finire nel 2020 a Santa Maria Capua Vetere. Perché prima o poi ce ne sarà un’altra e un’altra ancora. Senza dimenticare che, accanto a episodi diventati pubblici, ne esistono molti altri rimasti nascosti alle telecamere, che ogni volta in cui possono essere utili magicamente non funzionano. O non funzioneranno. Come per i quattordici morti nelle carceri a marzo 2020.
Si può obiettare che abolire il carcere è un’utopia. O una follia. Sì, lo sembrava anche la chiusura dei manicomi. Dove il problema non era abolire le catene o gli elettroshock, che erano solo degli strumenti. Per Franco Basaglia l’obiettivo non era neanche mantenere il manicomio come extrema ratio. Ma proprio abolire il manicomio. Non la mela marcia, non il cestino di mele marce, ma il frutteto avvelenato del carcere. Certo, non è un obiettivo di breve periodo, ma se non ce lo si pone non lo si otterrà mai. Nel frattempo è importante bonificarlo, quel frutteto malefico. Con interventi mirati.
Il primo è eliminare per davvero l’aberrazione dell’ergastolo ostativo, una variante cinica e martellante della pena di morte. Condannato come pena disumana dalla Corte di Strasburgo e riconosciuto finalmente come incostituzionale. Ma per ora rimasto lì per intero. Va tolta però anche la pena dell’ergastolo, quel fine pena fissato in maniera surreale al 31 dicembre 9999; non è vero che dopo trent’anni, comunque una vita, si può uscire: negli anni Novanta cinquecento persone condannate all’ergastolo trascorrevano la loro esistenza in carcere, oggi sono oltre millecinquecento: un’enormità.
Il secondo riguarda l’articolo 41bis, un trattamento insistentemente disumano e degradante. Una forma di tortura. La Guantánamo italiana. Ma anche un totem intoccabile per una buona parte della magistratura e per tutto, o quasi, un ceto politico giustizialista o ignavo. Ma anche, purtroppo, per alcune associazioni antimafia. In carcere non ci sono i mafiosi, ci sono persone condannate per reati di mafia. E le persone, tutte, non possono essere sottoposte a una forma di tortura quotidiana.
Il terzo coinvolge gli abitanti abusivi del carcere: uomini e donne con problemi di tossicodipendenza o cittadini stranieri senza documenti riconosciuti come validi in Italia. Costretti alla clandestinità. Gli uni e gli altri rappresentano oltre la metà dei detenuti. Entrano con grande facilità in prigione e non riescono a uscirne in nessuna forma di misura alternativa, perché non hanno né un reddito né un’abitazione: due diritti essenziali. Nel nostro piccolo, come altri, ci stiamo provando. La comunità “Il Gabbiano” ogni anno ospita oltre cento detenuti in misura alternativa, cercando di accompagnarli alla ricerca di un lavoro e di una casa. Spesso, soprattutto nei confronti dei cittadini stranieri, è una fatica di Sisifo, perché alla fine della pena vengono sottoposti al decreto di espulsione. Anche quando hanno un lavoro.
Il quarto è l’ampliamento delle pene sostitutive: la messa alla prova e i lavori di pubblica utilità. Erroneamente vengono scambiate per misure di giustizia riparativa, quando sono invece attività risarcitorie: in ogni caso possono servire, se possono evitare la pena in carcere.
Il quinto è la giustizia riparativa. Ci troviamo di fronte a un termine sbagliato e fuorviante nella lingua italiana: non siamo anglofili, ma in questo caso restorative justice rende molto di più l’idea. Non è il quarto grado di giudizio, o una pena suppletiva, come alcuni la intendono. La giustizia, o meglio, la comunità riparativa non è una novità nella storia dell’uomo: appartiene, o è appartenuta, come realtà concreta a molte società capaci di essere comunità.
La comunità governa i conflitti, avvicinando le parti e cercando le soluzioni. Non lascia solo nessuno, nel proprio rancore o nella propria sete di vendetta. Il contatto è fondamentale: Nelson Mandela e Constand Viljoen, il leader degli afrikaner bianchi, convinto assertore fino al giorno prima dell’apartheid. Un muro che si è sgretolato. La comunità riparativa è una medicina, il carcere è una malattia letale. Per questo va abolito. |