Erano detenuti che avevano tumori, leucemie, distrofie muscolari, ulcere sanguinanti, anoressia, ma non curati in tempo perché gli operatori credevano che simulassero. Non è un caso raro quello di Antonio Raddi, detenuto al carcere le Vallette di Torino, che morì il 30 dicembre 2019 a 28 anni per una infezione polmonare dopo avere perso 25 chili di peso, ma che nessuno l’ha curato in tempo perché gli operatori credevano che simulasse.
Nelle carceri italiane muoiono in media 150 detenuti l’anno, dei quali un terzo circa per suicidio, un terzo per cause immediatamente riconosciute come “naturali”, e il restante terzo per “cause da accertare”, che indicano tutti i casi nei quali viene aperta un’inchiesta giudiziaria. È difficile credere che in tutti questi casi la morte sia stata un evento improvviso, inatteso e imprevedibile; più probabilmente ha rappresentato l’epilogo di una malattia che progressivamente si aggrava, con segni clinici e sintomi via via più evidenti che avrebbero dovuto allarmare i sanitari, far disporre il ricovero in ospedale e, quanto meno, dare l’avvio alle procedure per l’ottenimento del rinvio della pena o della detenzione domiciliare.
Perché questo non accade? Spesso non viene prestata sufficiente attenzione ai sintomi della malattia, ai detenuti non sempre vengono creduti quando lamentano un malessere. Tanti, tantissimi sono casi del genere.
Il caso emblematico riguarda la morte di Roberto Jerinò, detenuto al carcere calabrese di Arghillà e morto dopo dolori lancinanti a dicembre del 2014 presso l’ospedale di Reggio Calabria. L’allora sessantenne Jerinò, durante la detenzione, cadde per terra perché la sua gamba perse la memoria dei movimenti, poi il braccio e infine la bocca. Venne portato di corsa in ospedale: ischemia, fu la diagnosi, con paresi facciale degli arti. L’avvocato, come logico, chiese la concessione dei domiciliari. Rigettato. Subito riportato in carcere, nonostante la diagnosi.
Secondo la testimonianza di alcuni detenuti, alle 3 di notte del 12 dicembre del 2014, Jerinò sentì assottigliarsi e allargarsi una vena in testa; era un movimento continuo, lievemente doloroso. Chiamò un suo compagno di cella chiedendogli una camomilla; credeva avesse bisogno di tranquillizzarsi. Non riuscì a dormire quella notte. La mattina si segnò in elenco per l’infermeria: gli misurarono la pressione, nessuna anomalia. Fu così per l’intera giornata: un dolore costante, ritmato; la pressione era stabile. Il 13, tutto uguale: dolore e pressione, stabili. Non facevano altro che misurargli la pressione e riportarlo in cella. Stava impazzendo Jerinò, sentiva quella vena come se fosse una sanguisuga. Lamentava dolore. Dopo aver trascorso tre giorni di lamenti, e richieste di soccorso, rimase paralizzato nel letto. Lo portarono in ospedale che era già in coma. Non si risvegliò più. Morì il 23 dicembre del 2014.
Ripeschiamo un altro caso lontanissimo nel tempo, ma particolarmente emblematico. Si chiamava Uzoma Emeka, detenuto nigeriano di 32 anni, il quale muore nel carcere di Teramo il 18 dicembre 2009 per un tumore al cervello mai diagnosticato. Dalla relazione dell’avvocato Alessandro Gerardi, che ha potuto visitare il carcere di Teramo e raccogliere la testimonianza dei compagni di cella di Emeka al seguito di una delegazione di parlamentari radicali, si legge che venti giorni prima di morire, aveva già cominciato ad avvertire alcuni forti capogiri: perdeva i sensi all’improvviso, sveniva in cella e nelle docce, vomitava, non riusciva ad alzarsi dal letto, non mangiava, deperiva a vista d’occhio.
Ogni volta che perdeva i sensi, i compagni di cella lo conducevano in infermeria sulle spalle, ma il medico di guardia, dopo pochi minuti, senza fare né disporre ulteriori accertamenti, lo rimandava in cella prescrivendogli tutt’al più qualche “pillola” per dormire. Anche la notte prima di morire Emeka era stato rispedito dall’infermeria nella cella, ma stava talmente male da non riuscire a rimanere nemmeno steso sul letto e cadeva continuamente a terra. Dopo alcuni tentativi è stato lasciato privo di sensi per terra, con un lenzuolo, per l’intera nottata, nonostante avesse vomitato più di una volta e gli altri detenuti ne chiedessero l’immediato ricovero in infermeria. Risultato: la mattina seguente lo hanno trovato con la bava alla bocca, rigido e privo di coscienza. Solo dopo qualche ora è stata finalmente chiamata l’ambulanza, ma ormai i medici non hanno potuto fare altro che constatarne il decesso.
Nelle carceri italiane quando si verificano casi di mancato ascolto del paziente, esami clinici non effettuati, diagnosi sbagliate, in definitiva cure non prestate, il vero motivo è spesso lo stereotipo che vuole il detenuto manipolativo e falso, che simula un malessere ( o ne esagera i sintomi) allo scopo di ottenere dei “benefici”. Inoltre i medici sono consapevoli che per un detenuto la libertà vale più della salute, quindi spesso “sospettano” che possa aver messo in atto pratiche autolesionistiche per auto- provocarsi i disturbi che lamenta e che, comunque, non seguirà le terapie prescritte in quanto gli “conviene” lasciare che la malattia si aggravi, nella speranza di ottenere l’incompatibilità con il regime detentivo. Tutto ciò porta a un’amara conclusione: tante morti in carcere potevano ( e possono) essere evitate.
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