La tecnica è questa: l’uomo sottoposto a fermo, che si sottrae o reagisce o resiste, viene costretto prono a terra, i polsi ammanettati, mentre uno o più agenti premono con il peso del corpo sulle sue spalle e sulla sua schiena, per un tempo di durata variabile (37 minuti nel caso di Luca Ventre di cui più oltre dirò). A completare quella manovra, il braccio di uno degli operatori (poliziotti, carabinieri, ma anche vigili urbani nella vicenda di Andrea Soldi, a Torino) serra il collo del fermato. La combinazione tra le due mosse – la compressione del torace e la stretta sulla gola – impedisce la normale respirazione e può determinare una sindrome asfittica e, infine, la morte.
È quanto è accaduto, nella notte tra il 2 e il 3 marzo 2014, al trentanovenne Riccardo Magherini, fermato da una pattuglia di carabinieri a Borgo San Frediano, a Firenze. Nonostante fosse in stato di evidente alterazione e palesemente inoffensivo, gli venne applicata proprio quella tecnica. Potremmo definirla “codice Floyd”, perché è stato quel dispositivo a provocare la morte dell’afroamericano George Floyd il 20 maggio 2020 a Minneapolis. Ora, su richiesta della Corte europea dei diritti umani (Cedu), che ha proceduto a un preliminare vaglio di ricevibilità del ricorso dei familiari di Magherini, il governo italiano deve rispondere ad alcuni interrogativi a proposito della legittimità di quella tecnica di fermo; e del fatto che essa possa mettere in pericolo i fondamentali diritti della persona, innanzitutto quello alla vita.
Dunque, si esigono chiarimenti su questioni sollevate dall’esame dei fatti, degli atti, delle sentenze e della normativa italiana, che segnalano possibili violazioni della Convenzione europea. Si tratta di una comunicazione al governo, che annuncia l’apertura di un procedimento a carico dell’Italia: un vero e proprio “atto di accusa” contro gli apparati del controllo e della repressione e contro la politica che li governa.
Tra le domande poste al nostro governo, ecco le più rilevanti: l’uso della forza da parte dei carabinieri è stato “assolutamente necessario e strettamente proporzionato” al raggiungimento dello scopo perseguito (il contenimento della persona fermata)? Le autorità pubbliche hanno garantito che fosse tutelata dagli operatori la particolare condizione di vulnerabilità del soggetto in questione? Le stesse autorità possono dimostrare di aver fornito agli agenti che operano in circostanze simili una formazione adeguata, capace di evitare abusi e trattamenti inumani e degradanti?
Come è suo solito, la Corte, nel considerare una vicenda che coinvolge quattro carabinieri, si rivolge alle nostre istituzioni, assumendo che possa discendere da esse la responsabilità dei comportamenti non legali dei membri degli apparati. Di conseguenza, ci si chiede se lo Stato italiano sia dotato “delle misure legislative, amministrative e regolamentari che definiscono le limitate circostanze in cui le forze di polizia possono far uso della forza”; e se esistano una prassi o un protocollo ai quali gli agenti debbano fare riferimento, in particolare per quanto riguarda le tecniche d’immobilizzazione e contenimento.
Come si vede, si tratta di questioni delicatissime, fondamentali per una gestione equilibrata, e rispondente a criteri democratici, dell’ordine pubblico. La morte di Riccardo Magherini, infatti, non rappresenta un caso isolato. A chi scrive è capitato di interessarsi di una decina di storie simili: quelle di Riccardo Rasman, Federico Aldrovandi, Bohli Kaies, Arafet Arfaoui, Vincenzo Sapia, Bruno Combetto, Andrea Soldi, Luca Ventre e altri ancora. In tutte, il ricorso al “codice Floyd” è risultato essenziale nel determinare la morte del fermato. Evidentemente, ciò ha una relazione diretta con i programmi di formazione degli operatori di polizia.
Il 30 gennaio 2014, una circolare del Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri, raccomandava di evitare “i rischi derivanti da immobilizzazioni protratte, specie se a terra in posizione prona”. E si chiariva che “la compressione toracica può costituire causa di asfissia posturale”. Un mese dopo, la morte di Magherini. Nel 2016, a processo in corso, la circolare venne sostituita da un altro testo nel quale venivano eliminate le avvertenze sui rischi che può provocare “l’ammanettamento nella posizione prona a terra”. Ora il governo italiano ha tempo fino al prossimo 27 aprile per fornire risposte adeguate. Ed è importante sapere che, come ha scritto la Corte, questo può diventare un “impact case”: ossia un caso relativo a una questione emergente che attiene ai diritti umani; o un caso la cui conclusione potrebbe determinare un cambiamento nell’attuale legislazione.
Come ha detto l’avvocato Fabio Anselmo che assiste, insieme all’avvocata Antonella Mascia, i familiari di Magherini: “Finalmente l’Italia dovrà rendere conto della morte di un giovane uomo che chiedeva aiuto e della cattiva giustizia riservatagli”. |