L’Italia è stata condannata dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per la violazione (tra le altre) dell’articolo 3 della Convenzione Europea che proibisce i trattamenti inumani e degradanti.
La sentenza Affaire Sy c. Italia è stata depositata oggi 24 gennaio, il motivo della condanna sta nel fatto di aver trattenuto un uomo con gravi problemi psichiatrici in carcere, quando sia un Tribunale italiano che la stessa Corte avessero ordinato il trasferimento in un centro dove potesse essere curato.
La Cedu afferma due principi importanti: il primo, le carceri non sono luoghi di cura per la presa in carico di patologie psichiatriche gravi, vanno dunque immaginati nuovi modelli per la salute mentale, in stretto contatto con i servizi territoriali.
Nella stessa giornata di ieri – mentre il Garante nazionale dei detenuti Mauro Palma denunciava un suicidio ogni tre giorni tra i detenuti dall’inizio del 2022 e chiedeva di «ridurre le tensioni» nelle carceri e «ridefinire un modello detentivo» – la Corte costituzionale con la sentenza n. 18 (redattore Francesco Viganò), accogliendo la questione sollevata dalla Cassazione, ha dichiarato illegittima la censura sulla corrispondenza dei detenuti sottoposti al 41 bis con il proprio avvocato difensore. Secondo la Consulta, il diritto alla difesa può essere «circoscritto entro i limiti della ragionevolezza e della necessità, purché non sia compromessa l’effettività della difesa». Mentre la censura della corrispondenza con il proprio legale, anche per i detenuti sottoposti al “carcere duro”, è una «irragionevole compressione del diritto di difesa». Tanto più perché, ricordano i giudici costituzionalisti, le circolari del Dap in vigore dal 2017 escludono già questo tipo di controlli sulla corrispondenza dei detenuti in 41 bis.
Due sentenze che ci ricordano quanto sia deficitaria la salvaguardia dei diritti dei detenuti nelle carceri italiane. La condanna della Cedu per trattamento inumano e degradante, spiega Patrizio Gonnella, «dimostra un cortocircuito istituzionale nel nostro Paese inaccettabile». «È solo uno dei tanti casi simili pendenti che riguardano la questione delle persone con patologie psichiatriche nel circuito penale – ricorda il presidente dell’Associazione Antigone – E a giorni sul tema si aspetta anche la sentenza della Corte Costituzionale».
Secondo l’organismo del Consiglio d’Europa, nel caso di Giacomo Seydou Sy, al tempo detenuto nel carcere romano di Rebibbia, l’Italia ha violato gli articoli 3 (trattamenti inumani e degradanti), 5 (comma 1, detenzione illegittima; comma 5, mancato riconoscimento del diritto al risarcimento), 6 (comma 1, diritto a un processo equo) e l’articolo 34 (diritto di ricorso individuale). Era infatti dovere del «governo italiano» trovare un posto nelle Rems o «un’altra soluzione adeguata, come peraltro la Corte aveva espressamente indicato nel provvedimento provvisorio» emesso da Strasburgo il 7 aprile 2020. Allora, il governo italiano (Conte II) rispose che non era in suo potere decidere alcun altra collocazione per l’uomo – considerato socialmente pericoloso – se non le Rems, come disposto dal Gip, dove però «nonostante le ripetute richieste, nessun posto si è liberato».
«La nuova condanna Cedu è un’ulteriore macchia per il Paese che fu di Beccaria e conferma le nostre denunce», commenta il sindacato di polizia penitenziaria Uilpa che suggerisce, «senza ricorrere a improbabili nuovi studi», di «ripartire dalle proposte scaturite dai lavori degli Stati generali dell’esecuzione penale del 2016 (voluti dall’allora ministro Orlando, ndr) e attuarne la parte pertinente, purtroppo poi irresponsabilmente cestinata dai governi (Renzi, Gentiloni, ndr)». Attenzione però, avverte Gonnella: «La Cedu dà indicazioni su un “percorso” che governo e Parlamento devono seguire per evitare altre violazioni»: immaginare nuovi modelli per la salute mentale, in modo da prendere in carico anche i detenuti con patologie psichiatriche gravi, ed «evitare la semplificazione di chiedere più Rems – sottolinea il presidente di Antigone – sarebbe un errore interpretativo grave che non salverebbe il Paese da ulteriori condanne». |
«Dai loro racconti – commenta l’associazione – è emerso chiaramente come la vessazione e i trattamenti inumani e degradanti fossero la norma anche prima dell’ottobre del 2018». I detenuti parlano di vero e proprio “metodo sistematico di intervento violento e vessatorio” finalizzato a terrorizzare e addomesticare i detenuti. “Una violenza gratuita e sistematica che non è in alcun modo giustificabile e che i giudici non dovrebbero avere difficoltà a configurare come tortura visto che per poter essere dimostrato il reato di tortura deve essersi manifestato più volte e non in un unico episodio. D’altra parte crediamo che il dibattito sulla tortura dovrebbe essere riaperto al fine di arrivare a contemplare tutte le forme di tortura che vengono perpetrate sulle persone private della libertà, o comunque in situazione di minorata difesa, da parte di pubblici ufficiali (pensiamo ai centri di identificazione per migranti, le rsa per anziani, le caserme)”, commenta Sandra Berardi, presidente dell’associazione. |