Sequestri di persona, violenze, saccheggi e nove morti, includendo il decesso di un altro recluso dopo il trasferimento. Questo è successo nel carcere di Modena, l’8 marzo 2020. Considerando il numero di detenuti che hanno perso la vita, la distruzione del carcere, le botte nel casermone che sarebbero state inferte ai detenuti, denunciate dai reclusi e non solo, si tratta di una pagina nera della nostra Repubblica, la più grave avvenuta dietro le sbarre.
Verità nascoste – Ma se non si fa luce su quelle ore, se non si recuperano le immagini, i video, se non si mettono in discussione anche i (pochi?) elementi fin qui emersi, ci dovremo accontentare di una verità addomesticata, di una ricostruzione rabberciata.
Chi scrive ha parlato per la prima volta con alcuni agenti della polizia penitenziaria, con dirigenti della prigione modenese, con ex detenuti per ricostruire ogni passaggio della vicenda. Si parte da un’evidenza: nonostante una gestione disastrosa del caso, tutti i funzionari sono rimasti al loro posto. In assenza di video delle barbarie, non ci sono finora state reazioni (nell’opinione pubblica e nella politica) come invece accaduto per i fatti di Santa Maria Capua Vetere. Dove si è consumato un pestaggio di stato, ma nulla era accaduto prima della pubblicazione delle immagini da parte di Domani.
All’inizio della pandemia da Covid-19, gli istituti di pena italiani diventano luoghi di rivolta e scontro per l’assenza di mascherine, e a causa della paura del contagio. Nel carcere di Modena, per protestare, decine di detenuti distruggono le celle e gli uffici: gli agenti penitenziari entrano a riprendere il controllo dell’istituto a tarda sera, quando ormai è troppo tardi.
La procura della città emiliana apre tre fascicoli di indagine. Il primo serve ad accertare i danni e le devastazioni compiute dai detenuti, un’inchiesta ancora in corso. Un altro fascicolo si è occupato di approfondire le cause della morte di nove reclusi (overdose di metadone) ed è stato archiviato, nonostante l’opposizione degli avvocati Simona Filippi e Luca Sebastiani, che hanno aperto un fronte europeo facendo ricorso alla Corte internazionale dei diritti dell’uomo. Indagini giudiziarie che si sono appoggiate sulle relazioni del comandante del carcere.
L’ultimo fascicolo si occupa delle violenze che i poliziotti penitenziari avrebbero compiuto durante e dopo la rivolta a Modena, ma anche nel carcere di Ascoli dove alcuni reclusi vengono trasferiti proprio la sera dell’8 marzo 2020.
L’abbrivio di questo filone è un esposto presentato dai detenuti che sono stati sentiti come persone informate sui fatti. Durante i colloqui con i magistrati modenesi, i detenuti riconoscono diversi agenti consultando un album fotografico che gli inquirenti gli sottopongono durante un colloquio.
Testimonianze che potrebbero allargarsi per un’inchiesta che ha ottenuto già due proroghe senza che sia stato ancora emesso l’avviso di conclusione delle indagini preliminari, preludio alla possibile richiesta di rinvio a giudizio.
L’agente testimone – Delle violenze di quel drammatico giorno fino ad adesso avevano riferito solo i detenuti, parlando di pugni e calci ricevuti dentro al casermone, una struttura esterna al carcere, ma all’intero del perimetro dell’istituto. Pestaggi che sarebbero avvenuti prima dei trasferimenti in altri istituti. Ma quel pomeriggio di orrori, sommosse e violenze, era presente un agente. Un poliziotto ancora in servizio, ma che rompe il silenzio su quella giornata.
“Alcuni detenuti mentono, altri invece no. All’interno dell’istituto quando siamo entrati, forse troppo tardi, abbiamo usato la forza per reagire a chi opponeva resistenza o brandiva strumenti di offesa. Ma bisogna ammettere che una volta portati fuori alcuni carcerati, resi precedentemente inoffensivi, sono stati picchiati da alcuni colleghi”, dice il testimone. L’agente non era nel casermone perché non aveva intenzione come altri colleghi di farsi giustizia da sé.
Le sue parole potrebbero essere frutto di un livore nei confronti dell’amministrazione, ma collimano con quelle dei detenuti denuncianti. “Io non ho visto direttamente con miei occhi quello che è accaduto, ma non c’era bisogno: vedevo i detenuti entrare in un modo e poi li vedevo uscire sanguinanti. Chi era d’accordo all’azione punitiva entrava e partecipava al pestaggio, chi non voleva si limitava a stare fuori dalla stanza senza partecipare”, aggiunge.
L’agente ripensa a quei momenti, ai reclusi imbottiti di metadone e a quelli non salvati in tempo, ai corpi dei detenuti morti perché uccisi da abbandono e dipendenze. Si inclina la voce. “Non ci siamo arruolati per questo, non siamo tutti uguali a quelli di Santa Maria Capua Vetere, l’8 marzo si faceva fatica a mettere le coperte sui morti perché sembrava un cedimento emotivo. Si era creato un clima da guerra, l’umanità si è persa quel giorno”, aggiunge. L’indagine della magistratura che procede a rilento vede tra gli indagati, a vario titolo per tortura e lesioni aggravate, cinque persone, e tra queste c’è un funzionario della catena di comando.
Gli indagati – Si tratta di Giobbe Liccardi, commissario e componente della segreteria provinciale modenese del Sappe. Prima ne era stato segretario provinciale. Il sindacato, al quale è iscritto anche Pellegrino, quando Domani ha rivelato i nomi degli indagati, non ha voluto commentare e non ha sospeso l’iscritto. Neanche il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha provveduto alla sospensione o trasferimento dei poliziotti penitenziari indagati in attesa dell’esito dell’indagine giudiziaria.
Gli altri coinvolti sono Antonio Mautone, Giancarlo Inguì, Paola Tammaro e Maria Rosaria Musci. Tutti gli interessati respingono ogni addebito e sono certi di dimostrare la loro estraneità.
Su quelle ore bisogna ricostruire adesso ogni passaggio, l’esistenza o meno delle immagini delle telecamere di sicurezza, le ragioni delle parti, le scelte dei vertici e della catena di comando a tutela dei detenuti, dei familiari di chi è morto, ma anche della stessa polizia penitenziaria. Perché il più grande scandalo carcerario della storia repubblicana, che ha lasciato a terra nove vite, merita una verità piena, non risposte parziali e rabberciate. Soprattutto dopo la confessione del primo poliziotto che ha deciso di raccontare la sua versione dei fatti. |