Il primo atto del governo in materia di giustizia, ossia la creazione del nuovo reato “anti rave party”, ha riacceso la vecchia polemica su uno dei grandi mali che affligge il nostro sistema giudiziario: il panpenalismo, ossia la tendenza di potere risolvere tutto con il codice penale. Ne parliamo con Ennio Amodio, avvocato penalista, professore emerito di procedura penale all’Università di Milano, che ci spiega il legame tra questo fenomeno e le derive autoritarie, populiste e vittimo-centriche. Professore i primi atti del governo sono stati in materia di giustizia. Senza entrare per il momento nel merito dei tre provvedimenti, qual è il suo giudizio in generale?
Gli esponenti del nuovo corso politico, subito dopo la vittoria elettorale, hanno esibito un inappuntabile doppio petto. Appena messo piede a Palazzo Chigi hanno però abbandonato moderazione e ragionevolezza togliendosi la giacca e rimboccandosi le maniche della camicia. Ne è venuta fuori la loro autentica vocazione autoritaria che ha ispirato tre provvedimenti in tema di giustizia e sicurezza. Nel decreto-legge firmato dal nuovo governo c’è anzitutto la rimasticatura a denti stretti del regime dell’ergastolo ostativo, poi il rinvio della riforma Cartabia per quanto riguarda il processo penale e, infine, la creazione del reato di occupazioni abusive a fini di rave party. Sono tutti interventi che, a ben vedere, traducono nel legalese ministeriale la formula tanto cara a Matteo Salvini secondo cui «la pacchia è finita », usata spesso per annunciare la discontinuità rispetto alla tolleranza manifestata in passato verso una diffusa illegalità. Scendiamo nel dettaglio ossia sul rinvio della riforma Cartabia. Era necessario?
Il rinvio della riforma Cartabia serve al centro destra per rimettere le mani nella pasta del lavoro legislativo. Il pretesto è quello di raccogliere il “grido di dolore” delle Procure tanto inquiete per l’imminente svolta nel senso della massima speditezza della macchina giudiziaria. Il vero obiettivo è però un altro, come conferma il richiamo della Presidente Meloni all’esigenza di migliorare il testo varato dal governo Draghi. Si vuole riscrivere la riforma evidentemente in ossequio ad un sano sentimento giustizialista 434 bis: è il nuovo reato illustrato dal ministro Piantedosi. Che ne pensa?
L’incriminazione delle occupazioni abusive di terreni o edifici per raduni illegali è davvero la scelta che esprime nettamente l’avvio sulla strada del diritto penale totale, come usava dire Filippo Sgubbi. Non solo: si dà vita ad una fattispecie che funge da grande contenitore di tutte quelle condotte di raduno generatrici di un qualche pericolo, anche del tutto estranee alla finalità di un rave party. C’è di più. Si capisce benissimo che è un intervento additivo che accresce l’efficacia punitiva già derivante da preesistenti norme penali. Si tratta di una legge manifesto?
È fin troppo chiara l’opzione per una legge-manifesto, una previsione criminosa simbolica che impatta su un fatto recente come quello del grande raduno di Modena. Ciò che più rileva per chi scrive la norma bandiera non è tanto la sequenza delle parole che definiscono la fattispecie, ma l’etichettamento che ne deriva in termini di impronta criminosa cucita addosso a chi si trova in una certa situazione. A proposito di simboli, ergastolo ostativo e pena: esiste la tentazione di utilizzare esseri umani imprigionati a vita come simbolo e funzionali alle esigenze preventive generali?
Si ha il timore che una persona, pur avendo scontato una lunga pena per un grave reato, torni a delinquere se lasciata libera. È questa una credenza molto diffusa e sta alla base dell’avversione dei benefici penitenziari. Nel carcere, come dice spesso pure Salvini, bisogna andarci e marcire, così i cittadini sono sereni e tranquilli. Poi c’è indubbiamente come diceva lei l’aspetto di prevenzione generale: si pensa che più si può sbandierare il fatto che pericolosi mafiosi e terroristi stanno in carcere segregati e più si dimostra che lo Stato difende la collettività. Ma in realtà sono credenze errate.
Questo problema è stato studiato da tempo. Consiglio di leggere un libro molto famoso che nel 2007 uscì negli Stati Uniti: “Governing through Crime: How the War on Crime Transformed American Democracy and Created a Culture of Fear”: governare attraverso il crimine, enfatizzando la paura del delitto e quindi spingere i cittadini a mettersi nelle braccia dei governanti. In che direzione stiamo andando?
Siamo quindi di fronte ai primi atti di una stagione politica che sembra puntare sulla leva del giustizialismo per governare la materia della sicurezza pubblica e del controllo della criminalità. Forse vedremo realizzarsi una fusione. Da un lato, il credo populista con il primato attribuito alla pena come risposta emotiva generata dalle vittime del reato. Dall’altro, l’autorità politica che usa il diritto penale come la medicina necessaria a combattere il virus della delinquenza. Tutto questo scenario non stride con l’esigenza invece di una forte depenalizzazione del nostro sistema?
Certamente. È una posizione assolutamente antitetica ma risponde a una esigenza che è tipica della politica della destra di avere un diritto penale sempre pronto ad intervenire in qualsiasi evento di rilievo sociale per far vedere che lo Stato è sempre vicino alle vittime e riesce a colpire anche al di là del sistema vigente. È una immagine che si vuole dare dello Stato pronto a colpire il delinquente in qualsiasi momento e in qualsiasi occasione. Il potere di punire, «tanto terribile quanto necessario » ha assunto «delle dimensioni esorbitanti e non solo in Italia: c’è un panpenalismo che connota il nostro tempo fatto di abuso e invasività del diritto penale» per cui «creare aggravanti o innalzare le pene è la scorciatoia» con cui si risponde ai problemi. Lo aveva detto lo scorso anno l’ex ministro Cartabia. Stiamo rafforzando questo quadro?
Condivido il pensiero dell’ex Guardasigilli. Siamo nella linea di una ricerca del diritto penale minimo, per riservare l’intervento punitivo alle violazioni più gravi proprio per far intendere a tutti che la pena carceraria è la sanzione più capace di incidere sulla vita delle persone. La pena dovrebbe rieducare ma di per sé distrugge l’individuo: il costo che implica per la persona che la deve scontare è talmente alto alcune volte da impedire che si realizzi la rieducazione voluta dalla Costituzione. Negli altri casi lo Stato può utilizzare sanzioni amministrative o le pene pecuniarie. La stessa riforma Cartabia del processo penale ha ridotto anche l’intervento penale aumentando i casi di perseguibilità a querela. È l’indice di una posizione contrapposta a quella che sembra aver sposato il governo di destra. Diversi pubblici ministeri hanno criticato questa parte della riforma.
Evidentemente non sono a favore di un diritto penale minimo e lo trovo incomprensibile considerato che tale visione gioverebbe al fine di accrescere la funzionalità delle loro indagini. La recente iniziativa del governo mette in evidenza non solo la creazione di un nuovo reato ma anche pene draconiane ad esso connesse.
Il diritto penale minimo è un principio che va raccordato con quello della proporzionalità. Nei regimi autoritari si calpesta la proporzionalità. Secondo questo principio la risposta punitiva deve essere graduata sull’effettivo disvalore che nasce dal reato. È tutto il contrario di quello che afferma il populismo, vale a dire che tutte le volte che viene commesso un reato, la sanzione deve essere espressa nella chiave reattiva ed emotiva della vittima stessa E come?
Con la pena massima, che non può essere mai estinta o attenuata dal perdonismo del giudice, ma che va scontata fino in fondo. In Italia soffriamo di vittimo-centrismo?
Certamente, abbiamo cominciato a soffrirne molto quando si è sviluppata la politica penale del Movimento Cinque Stelle e della Lega. Nel mio libro “ A furor di popolo” ho cercato di individuare la trama di questo nuovo pensiero populista che abbandona i principi dell’Illuminismo e predica una penalità sempre più severa, che sgorga appunto dalla sete di vendetta delle vittime e scavalca il potere dei giudici. In che senso?
Si dubita persino che i giudici siano in grado di interpretare il desiderio di applicazione della pena che arriva dalle vittime. Quindi si cerca di circoscrivere l’intervento discrezionale del giudice, considerandolo come lassista, un atteggiamento che un sistema non si dovrebbe permettere, in quanto la sanzione penale deve essere sempre dura e inflessibile. Tra partiti politici, quali si sono mossi nella direzione di un diritto penale minimo?
In passato è sempre stata la sinistra a orientarsi in questa direzione ma non con sufficiente consapevolezza. In teoria ci si proclama favorevoli a riservare la sanzione penale solo ai casi più gravi. Però quando accade un evento che impatta fortemente sulla coscienza dei cittadini ecco allora che molti invocano la pena di morte o pretendono interventi durissimi nei confronti del reo. E quindi c’è sempre questo andamento fluttuante: il diritto penale minimo viene proposto e coltivato dalla dottrina più illuminata, ma trova poi degli ostacoli nella pratica attuativa. A volte il legislatore riduce l’ambito di applicazione del diritto penale ma poi nel momento in cui ci sono gli scossoni emotivi allora si ritorna a pensare di introdurre nuovi reati, come accaduto adesso per i rave party. Ma quali sono le ragioni per cui nel nostro Paese il diritto penale «totale» è invocato in ogni situazione come intervento salvifico?
Si tratta di una componente quasi connaturale alla fisionomia e al sentire degli individui. Non a caso l’antecedente storico del diritto è la vendetta. Essa è una risposta che scaturisce dall’animo di chi ha subìto un certo torto e considera la riparazione e la pena come interventi da calibrare sull’entità della sua sofferenza. Invece, la forza del diritto penale moderno è quella di portare tutto il sistema verso proporzionalità, razionalità e rispetto della dignità dell’uomo. «Una simile espansione del sistema penale scriveva Filippo Sgubbi – comporta il sacrificio dei principi fondamentali di garanzia, con l’aiuto del vigente clima di populismo e giustizialismo ». Quali sono dal suo punto di vista i rischi che corrono le garanzie individuali?
Sono evidentemente quei rischi che derivano dalla moltiplicazione delle figure di reato. Il diritto penale è retto dai principi di legalità e tassatività, e quindi ciascuno si comporta nella vita ben avendo presente che se supera una certa soglia può rispondere di un reato. Ma se a un certo punto il legislatore con la bacchetta magica può far diventare reato qualsiasi atto, allora il cittadino è nelle mani dello Stato e quindi non ha più la garanzia della sicurezza e della sua libertà, perché questa gli può essere sottratta in ogni momento. Una possibile via di uscita?
A far da diga agli oscuri pensieri che rinnegano la dottrina di Beccaria sarà la nostra Costituzione. Almeno fino a quando non si vorrà modificarla per farle dire che il processo è giusto solo quando tutela il bene della difesa sociale. |