Le righe che si succedono lungo l’analisi, rigorosa ed empatica, con cui Donatella Stasio descrive realtà e problemi della detenzione in carcere, giungono a un’affermazione che più di altre richiede una riflessione. È nell’indicare “l’assenza di connessione con il territorio” quale uno dei fattori determinanti nell’allontanare da “una seria prospettiva di rieducazione”.
Un’assenza che si accompagna ad altre con pari rilevanza: quella del rispetto della dignità di ogni persona – qualunque sia la sua contingente situazione di libero o recluso e di colpevole o innocente – e quella dell’invivibilità dei luoghi.
Tre descrittori di un sistema che, pur in presenza di professionalità e anche di alcune lodevoli esperienze, non funziona né nella direzione di chi lo vorrebbe chiuso e retributivo del male commesso, tale da bloccare l’intenzione di chi potrebbe commetterne altro, né in quella di chi lo vuole positivamente orientato verso un ritorno alla collettività, secondo quel percorso rieducativo che la nostra Carta delinea come finalità tendenziale di ogni pena.
Quell’assenza di connessione però non interroga soltanto chi deve amministrare l’esecuzione penale perché pone domande alla collettività tutta che stenta a riconoscere l’appartenenza al proprio corpo sociale anche di chi con la commissione del reato ha reciso fortemente i legami con esso. Interroga tutti noi per la nostra tendenza a pensare la vita oltre quelle mura come un “altrove” che non ci riguarda.
Un “altrove” molteplice: nei suoi spazi sempre più confinati ai bordi estremi delle periferie, dove raramente capita di passeggiare, oppure racchiusi nell’antico centro urbano dove l’appartenenza deve misurarsi però con l’invivibilità di ambienti pensati per una diversa quotidianità e certamente per una diversa concezione della pena detentiva.
Ma anche un “altrove” concettuale, spesso elaborato come un impossibile vaso di Pandora senza interrogarsi sulla necessità di un investimento sul futuro ritorno; dove anche il linguaggio diviene diverso, come in una sorta di gergo recluso.
Soprattutto un “altrove” dello scorrere del tempo interno che ciclicamente ripropone sé stesso e non afferra più lo svolgersi lineare del tempo esterno, quasi che il primo si concretizzi nella ciclicità di una circonferenza, mentre il secondo si allontana come una retta a essa tangente solo in un punto. La significatività del proprio tempo è forse il primo diritto offeso dal nostro sistema di detenzione.
Anche più rilevante delle stesse condizioni materiali e di sovraffollamento, nel determinare quel senso di vuoto e di essere “altrove”, appunto, che può giocare un ruolo determinante nell’accentuare la fragilità soggettiva. Perché il tempo privo di significato determina il venir meno del proprio autoriconoscimento come persona completa, seppure privata della libertà, e spesso agisce – ben aiutato dall’istituzione – come attore di un processo di implicita infantilizzazione. Che allontana sempre più dal mondo esterno.
Si diviene “oggetti” di un trattamento che altri decidono e su cui valutano i progressi e non più “soggetti”, orientati e supportati, del proprio percorso. Oppure si resta in attesa: oggi quasi 1500 persone sono in carcere per scontare una pena – non il residuo di una pena maggiore – inferiore a un anno, altri 2.700 tra uno e due anni: difficile pensare a una gravità accentuata di quanto commesso, che comunque va sanzionato, ma ancora più difficile pensare che quel tempo segregato abbia per loro un significato se non quello di lasciarlo trascorrere, per poi tornare alla situazione precedente – con in più lo stigma del carcere.
Difficile non rendersi conto che quelle vite ai margini dovevano forse essere socialmente intercettate prima con strumenti diversi dal diritto penale e che comunque ora richiedono altre soluzioni e non certo il carcere. Così i numeri diminuirebbero e forse allora il dibattito sull’edificazione di nuove carceri, non in sostituzione di manufatti obsoleti, ma in aggiunta all’esistente, mostrerà tutta la sua debolezza. |