NON C'E' FEDE SENZA LOTTA

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DAVIDE LIBERO











Carcere: rifiutare la logica sicuritaria

 

FONTE:Cumpanis

 

Come siamo arrivati alla emergenza carceraria? Dalle leggi speciali degli anni settanta alla sospensione delle libertà costituzionali fino alle rivolte nelle carceri e al 41 bis

 

 

Ogni volta che parliamo di carcere lo si fa in una ottica sbagliata, quella dello stato penale subentrato da tempo allo stato sociale pensando che la soluzione agli innumerevoli e irrisolti problemi sia il rafforzamento degli organici penitenziari e la certezza della pena\ detenzione. Negli anni novanta la popolazione carceraria cresce a dismisura grazie all’applicazione di due leggi: la «Jervolino-Vassalli» sulle droghe e la legge «Martelli» sull’immigrazione. Le carceri si riempiono non solo per due leggi che puniscono severamente alcuni reati ma perché in quel periodo storico avviene un processo di profonda trasformazione della società dalla quale escono perdenti i movimenti sociali e le classi subalterne. Sono gli anni non solo di Mani Pulite ma anche della fine dei movimenti di massa e del trionfo neo liberista che travolge i diritti sociali e una idea di società non plasmata sui valori del dio mercato.

Il punto di partenza per una sana discussione dovrebbe essere ben altro, la contestualizzazione storica e una retrospezione del lungo novecento ma se vogliamo “volare bassi” potremmo limitarci anche alla sola Costituzione Italiana, all’ Art. 27 secondo il quale l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.

Principi generici ma tali da imporre una ottica diversa da quella securitaria che poi è parte integrante del neo liberismo, logica che ha preso il sopravvento da oltre 40 anni, ossia da quando la legislazione emergenziale è stata imposta rafforzando il codice Rocco ereditato dal ventennio fascista. Non è casuale che le legislazioni emergenziali avvengano negli stessi anni della svolta dell’Eur e del compromesso storico, l’arretramento dei movimenti sociali ha anche sancito l’impoverimento del welfare e una visione della società ben diversa da quella dei trenta anni neokeynesiani nel corso dei quali la forza del movimento operaio e delle lotte sociali aveva raggiunto importanti risultati e vasti consensi.
Viviamo in un paese pieno di contraddizioni, ad esempio all’indomani della Liberazione tanti partigiani vennero incarcerati liberando migliaia di fascisti con l’amnistia Togliatti, partigiani presenti nelle forze di polizia e nello Stato furono subito sostituiti con ex fascisti che ritroveremo attivi protagonisti nella repressione di piazza tra la fine degli anni cinquanta e i settanta.

Un excursus storico utile a comprendere come l’eredità del fascismo sia stata accolta prima e poi alimentata nel corso degli anni nella Repubblica fondata sulla Resistenza senza dimenticare la sospensione di innumerevoli garanzie Costituzionali con lo Stato di emergenza in tempi di Covid e le legislazioni emergenziali della seconda metà degli anni settanta e, infine, l’avvento delle carceri di massima sicurezza e del 41 bis.

“Liberarsi dalla necessità del carcere” non era solo uno slogan degli anni settanta ma una pratica politica e sociale che mirava ad attenzionare l’opinione pubblica sul pianeta penitenziario. E questa pratica strideva con l’idea che bastasse una riforma del sistema penitenziario come quella della metà degli anni ottanta. Allora, tra gli anni sessanta e i primi ottanta, si parlava, in una ottica che potremmo definire per comodità civile e garantista, di riforma carceraria ma allo stesso tempo era forte la consapevolezza che anche il miglior intervento legislativo non avrebbe assolto i compiti di rieducazione e recupero sociale.

Già allora si denunciava il sovraffollamento degli istituti penitenziari e la impossibilità al loro interno di attivare percorsi di socializzazione, di studio e di formazione in una ottica di riduzione progressiva della dimensione carceraria. Al contempo era forte la convinzione che il carcere non doveva esistere per i minori (oggi ci sono 18 istituti di pena per minorenni). A partire dagli anni settanta le carceri nei paesi del capitalismo avanzato si riempiono di proletari perché la questione carceraria non può essere scissa da quella di classe. Migliaia di detenuti politici prima e poi a distanza di un decennio i reati legati al consumo di droga e alla immigrazione clandestina determinano l’aumento della popolazione penitenziaria. Contemporaneamente negli Usa vengono privatizzati istituti di pena e quello che si vanta come il paradiso della democrazia ha costruito autentiche discariche sociali dentro le quali il detenuto, uomo o donna che sia, vive in condizioni disumane e senza alcuna possibilità di effettivo reinserimento sociale.

Sempre negli anni settanta ed ottanta si metteva in guardia dalla pericolosità del carcere preventivo con lunghe detenzioni in attesa del processo e della condanna definitiva anche per reati di lieve entità. E in antitesi alla detenzione preventiva iniziammo a parlare di misure alternative alla pena per depenalizzare alcuni reati quando invece, nei decenni successivi, gli interventi del legislatore sono andati in direzione ostinata e contraria inasprendo le pene nel nome della lotta al degrado urbano, per non parlare poi dei pacchetti sicurezza (contro gli occupanti di casa e i protagonisti dei picchetti ai cancelli di magazzini e fabbriche) e dell’ultimo decreto anti rave.

Tramontando la lotta contro la carcerazione preventiva si è affermato il principio della certezza della pena per affermare, agli occhi della pubblica opinione, un’idea di Stato forte e intransigente, in realtà forte con i deboli ma assai accondiscendente verso i poteri economici forti.
La idea che ogni pena debba essere detentiva è tra le cause dell’affollamento carcerario e colpisce non solo i detenuti ma anche i poliziotti penitenziari e gli stessi operatori sociali, figure a dir poco carenti come del resto lo sono gli insegnanti o il personale sanitario nel pianeta carcerario. Così operando si sono costruiti percorsi di mera repressione per far espiare colpe, reali o presunte, ai detenuti e allo stesso tempo è andato via via degradandosi anche l’ ambiente di lavoro.

Si è persa traccia da tempo del dibattito sviluppatosi attorno alla riforma carceraria del 1986, iniziato quasi 20 anni prima, e anche delle contraddizioni evidenziate da numerosi giuristi che criticarono la mancata realizzazione di alcuni obiettivi come la differenziazione del regime detentivo e la necessità di costruire percorsi alternativi al carcere che negli anni sono stati fortemente ridimensionati. Senza percepire la gravità della situazione ci ritroviamo oggi con una opinione pubblica forcaiola che subisce la propaganda delle destre.

Oggi parlare di carcere significa sostenere a spada tratta le ragioni di una sola parte, quella della Polizia penitenziaria che a ragione lamenta carenze di organici ma resta fin troppo silente rispetto ad episodi di violenza perpetrati ai danni dei detenuti.

Sul quotidiano Domani il giornalista Nello Trocchia ha scritto decine di articoli nel corso di varie inchieste sulle carceri e sulle violenze nella pandemia, a questo giornale dobbiamo una campagna costante atta a denunciare le violenze subite dai detenuti, ad esempio quelli di Santa Maria Capua Vetere con una inchiesta della Magistratura che vede indagati centinaia di agenti con posizioni processuali talvolta assai diverse tra di loro.

Esponenti autorevoli del centro destra chiedono a gran voce la riammissione in servizio degli operatori sospesi dopo la iscrizione nel registro degli indagati, la lentezza della Giustizia resta un problema che non riguarda solo gli indagati nella Polizia Penitenziaria ma anche lavoratori che in attesa di un processo sono stati messi a casa per anni con il minimo dello stipendio. Il garantismo non può essere mai a senso unico e quando lo diventa patetico e a uso e consumo della mera propaganda politica.

Non ci sorprende il trattamento diseguale riservato dalla Giustizia italiana con promozioni e mantenimento in servizio di alcuni funzionari indagati (stando a quanto scrive Trocchia) e la sospensione di tanti secondini molti dei quali presenti ma non protagonisti delle torture ai detenuti. Per completezza rinviamo agli innumerevoli articoli di Nello Trocchia ma non prima di avere evidenziato come il garantismo sia oggi a senso unico, verso la polizia penitenziaria e mai verso i dannati della terra ossia i carcerati.

Non avere portato a compimento la riforma Penitenziaria tuttavia ha permesso, con tutti i limiti della stessa, di arrivare alla situazione surreale dei nostri giorni tra carceri fatiscenti che ospitano il doppio o il triplo dei detenuti previsti, con il depotenziamento di tanti centri medici interni ai penitenziari e una novantina di suicidi all’anno tra i detenuti. Perché nelle carceri italiane ci sono anche tanti detenuti in gravi condizioni di salute per i quali la prigionia preclude anche il diritto alla cura con una sospensione dei diritti civili del tutto evidente.

Poi c’è il 41 bis, il carcere duro per altro previsto dalla Riforma Gozzini del 1984, applicato non solo ai detenuti per reati di mafia ma anche ai politici non pentiti e dissociati (che oggi rappresentano quasi il 25% di quanti, quasi 800, sono sottoposti al carcere duro). Tra di loro ci sono i due anarchici in sciopero della fame. Sono una venticinquina le carceri nelle quali si applica il 41 bis considerato da alcuni giuristi un regime carcerario incostituzionale se applicato per periodi molti lunghi come sovente accade. E in Italia non è mai stata approvata l’amnistia, anche per la ignavia delle forze di centro sinistra che negli anni settanta furono talvolta meno garantiste di quelle di destra (eccetto chi invocava la pena di morte) davanti ai reati politici.

La canea mediatica accesasi attorno alla fuga di alcuni detenuti minorenni dal carcere di Milano ha alimentato le richieste securitarie dimenticando che, per la giovane età e la lieve entità delle pene, questi giovani dovrebbero beneficiare di misure alternative al carcere. Ma certe misure necessitano anche di investimenti reali dentro e fuori il carcere e una attenzione verso lo stato sociale e i percorsi rieducativi inammissibile nei tempi securitari della certezza della pena e del garantismo a senso unico.

La discarica sociale oggi rappresentata dal mondo carcerario è anche il risultato di decenni di politiche securitarie che hanno stravolto il sistema legislativo e affermato una sorta di stato penale inflessibile con i deboli ma assai accondiscendente verso i potenti che non a caso riescono, anche quando delinquono, a limitare a poco tempo la loro detenzione.

E qui ritorna il problema sopra evidenziato ossia il carcere come istituto punitivo contro gli ultimi e proprio dal rifiuto di questa idea, che poi si traduce in repressione, bisogna ripartire per ogni considerazione ulteriore.

 

Federico Giusti