È molto difficile prendere parola su quanto sta accadendo in questi giorni nelle carceri italiane. E non soltanto perché a chi è fuori spetta la responsabilità di cercare spazi di visibilità per vicende che accadono dentro gli istituti, e che quindi possono essere comprese, empatizzate, condivise e analizzate solo fino a una certa soglia oltre la quale è impossibile spingersi. È difficile raccontare di questa nerissima estate perché gli eventi tragici sono tanti, e la (non) risposta dell’apparato istituzionale che gestisce l’universo penitenziario è sconcertante.
Nel carcere delle Vallette di Torino due donne si sono suicidate nella giornata di venerdì. La prima si chiamava Susan John, era una detenuta nigeriana quarantatreenne che si è lasciata morire per denutrizione e disidratazione. La seconda, Azzurra Campari, ventotto anni, si è impiccata poche ore dopo nella sua cella. Nella stessa giornata a Napoli, al carcere di Poggioreale, Massimo Altieri, quarantuno anni, è stato trovato morto in circostanze non ancora chiare, probabilmente suicidarie; ieri, un detenuto di quarantaquattro anni si è tolto la vita nel penitenziario di Rossano Calabro, impiccandosi anch’egli in cella.
Se la scelta autolesionista estrema dei detenuti che si tolgono la vita in carcere ha causato, nei soli primi otto mesi del 2023, quarantatré decessi, vi sono altri detenuti e detenute che sono morti, o che stanno rischiando di farlo, perché hanno intrapreso la protesta dello sciopero della fame come forma di lotta contro l’inumanità e l’ingiustizia dell’istituzione carceraria o del loro singolo caso. Tra aprile e maggio due detenuti sono deceduti nello stesso carcere – quello di Augusta, in Sicilia –, denunciando invano l’indifferenza verso le loro rivendicazioni (uno, in particolare, straniero, chiedeva attenzione rispetto alla pratica di estradizione nel proprio paese che aveva attivato fin dal 2018). Al momento, incrociando i dati forniti dall’Ansa e quelli raccolti tra i vari garanti cittadini e regionali, i detenuti in sciopero della fame in Italia sarebbero quasi quaranta.
Tra questi, il caso che sta ottenendo più visibilità è quello di Domenico Porcelli, detenuto al 41bis nel supercarcere di Bancali, in sciopero della fame da oltre cinque mesi. Nell’ultima settimana le condizioni di Porcelli sono peggiorate, tanto che il detenuto ha accettato di sottoporsi a una flebo ma, come spiega il suo avvocato Maria Teresa Pintus, non ha alcuna intenzione di ricominciare a nutrirsi. «In questi mesi Porcelli – spiega Pintus – ha perso quasi un quarto del suo peso, e le sue condizioni allo stato attuale sono veramente gravi. Gli sforzi per salvarlo sono stati nulli, tanto che il detenuto ha fatto richiesta questa settimana di poter accedere alle procedure per il cosiddetto suicidio assistito». Così come evidenziato da Alfredo Cospito nel corso della sua battaglia, la detenzione al 41bis, in uno stato di tortura e quasi sempre senza alcuna prospettiva di risocializzazione del reo, è considerata dalla maggior parte dei detenuti uno stato di “non vita”, a cui in molti casi è preferibile una morte vera e definitiva.
Attenendosi ai fatti, non si può trascurare l’aumento degli atti di autolesionismo nelle carceri italiane negli ultimi tre anni. Il dato si inserisce in un contesto particolare se si pensa che, nel periodo immediatamente precedente, ci sono stati numerosi episodi di proteste poi represse violentemente dall’istituzione. La violenza della repressione di marzo e aprile 2020, e le morti rimaste a oggi impunite – nel silenzio generale della società civile e con vicende giudiziarie che prendono pieghe molto scoraggianti¹ – potrebbero aver avuto un effetto anche irrazionalmente deterrente rispetto ai tentativi da parte dei detenuti di rivendicazioni conflittuali collettive. Contestualmente, in aumento sembrerebbero² le battaglie a mezzo di auto-annientamento del proprio corpo, utilizzato come arma in contrapposizione alla barbarie legalizzata dell’istituzione. Battaglie nobili e coraggiose, come lo sciopero della fame, che talvolta hanno avuto esiti rivoluzionari, ma che hanno difficile capacità di incidere sul reale se non vengono sostenute da una rete di opinione pubblica trasversale (come nel caso Cospito) e se vengono bellamente ignorate dagli interlocutori istituzionali competenti.
Il ministro Nordio – la cui nomina veniva accolta quasi con favore persino a sinistra, in nome di un presunto garantismo di cui l’ex pm avrebbe dovuto essere alfiere – ha in questi mesi, con i suoi silenzi e la sua (in)azione, dato risposte che in realtà sono chiare e rumorose. Senza ritornare sull’ignavia e poi l’autoritarismo con cui il guardasigilli ha gestito le evoluzioni del caso Cospito, basta leggere le dichiarazioni del ministro nella sua visita al carcere delle Vallette per capire le posizioni sue e del governo che rappresenta. Nordio (duramente contestato con fischi, battiture e rumori di mobili percossi contro il muro dai detenuti di tutti i reparti) ha attribuito l’aumento dei suicidi e degli atti autolesionistici al solo sovraffollamento, e ha detto senza mezzi termini che la soluzione più naturale sarebbe quella di costruire nuovi istituti penitenziari. Siccome, però, soldi non ce ne sono, un’idea potrebbe essere quella di contenere i detenuti in altre strutture, come le caserme dismesse. Evidentemente, al ministro non sembrano soluzioni praticabili l’aumento delle misure alternative, gli interventi per la depenalizzazione di reati legati all’uso di sostanze stupefacenti o alla cosiddetta “immigrazione clandestina”, l’elaborazione di percorsi diversi dal carcere quantomeno per un certo tipo di reati o l’ampiamento della possibilità di liberazione anticipata condizionale per chi ha pochi mesi di detenzione ancora da scontare.
È chiaro che la battaglia di Cospito ha mosso qualcosa rispetto al flebile dibattito sul carcere nel nostro paese. È altrettanto chiaro che molte tra le aree sociali e le personalità che nell’ultimo anno si erano esposte sulla violenza, l’ingiustizia, l’inumanità di istituti come l’ergastolo e il 41bis, e in alcuni casi contro la stessa idea di istituzione totale, sono tornate a pesare le parole, o a eludere il tema, ora che, credono, non sia più “caldo”. Ma il peso di ciò che accade in carcere non lo danno i titoli dei quotidiani o lo spazio che i pezzulli di cronaca riservano a un suicidio o a uno scandalo. Il metro della gravità della situazione si percepisce analizzando le emergenze che si susseguono, le violenze inflitte da chi è in cella sui propri corpi, il numero di detenuti e di detenute che spingono la protesta fino a mettere a repentaglio la propria vita, la percentuale in aumento dei suicidi per impossibilità di reggere un livello di sofferenza spaventosa. Tutte queste cose non possono essere lette come fatti slegati, ma vanno tenute insieme e utilizzate, dentro e fuori, per rompere il muro di silenzio come, a tratti, si è riuscito a fare con il caso Cospito.
È inammissibile che davanti a una situazione così critica nel suo complesso il ministro della giustizia si nasconda dietro il sovraffollamento, e per di più proponga come soluzione altre carceri e altri muri dentro cui chiudere persone. È difficile in uno scenario così desolante provare a dare un contributo, ma ciò che di certo si può fare è organizzarsi per provare a mettere sistematicamente in rilievo – da dentro e da fuori – la gravità della situazione e la crisi irreversibile dell’istituto carcere, nel nostro paese come altrove: scardinare uno per volta i pezzi per mettere il potere davanti alle proprie responsabilità e far vacillare le sue finte certezze. Un castello quando è fragile non si distrugge solo minandone le fondamenta, ma anche smontandolo mattone per mattone. |