Il questore di Como ha emesso il divieto ad effettuare “qualsivoglia tipo di manifestazione pubblica nel territorio del comune di Cernobbio nelle giornate di svolgimento del Forum Ambrosetti”. Il think tank della finanza mondiale non deve essere disturbato. A rischio, secondo lo stesso questore, ci sarebbe “la sicurezza dei partecipanti all’evento che si terrà a Villa d’Este”.
A nulla è valsa perciò la disponibilità di Usb a convertire il corteo in una manifestazione statica da tenersi a più di un chilometro di distanza dalla Villa. In quei giorni a Cernobbio non è permesso manifestare, punto.
Al questore di Como (o più probabilmente allo stesso Ministero degli Interni) non sfugge che a garanzia del diritto a promuovere manifestazioni vige ancora l’articolo 17 della Costituzione, che stabilisce che “le autorità possono vietarle soltanto per comprovati motivi di sicurezza o di incolumità pubblica”. Per questo motivo nell’ordinanza si trova la frase, oramai rituale, che la manifestazione che avevamo indetto “potrebbe essere motivo di attrazione per elementi o gruppi gravitanti nelle aree antagoniste ed anarco-insurrezionaliste in grado di creare serie turbative per l’ordine pubblico”. Una frase buona per tutte le stagioni, destinata a mettere una pietra tombale a qualsiasi contestazione formale.
È in atto da tempo una sospensione dei diritti costituzionali, grazie ad una attribuzione sempre più ampia di poteri nelle mani degli organi di sicurezza, che stabiliscono limiti ogni volta più restrittivi delle libertà di espressione del dissenso. Alcuni luoghi, sedi di istituzioni politiche come il governo e il Parlamento, sono ormai precluse alla libertà di manifestare. A Roma il centro della città è praticamente ormai off limits, e le manifestazioni vengono autorizzate solo in alcune piazze e sempreché i promotori dichiarino un numero previsto di partecipanti che la questura considera congruo, altrimenti la manifestazione viene autorizzata molto più lontano. I cortei si possono effettuare solo nel fine settimana e se a carattere nazionale, altrimenti ci si deve accontentare di iniziative statiche. Nelle altre città il sistema è un po’ meno asfissiante, ma ci sono evidenti segnali che le “regole” introdotte nella Capitale sono in via di estensione.
Così come le sedi istituzionali, ora anche gli eventi vengono preservati. Manifestare il dissenso davanti alle sedi dove si assumono le decisioni che i cittadini intendono contestare è vietato, così come è vietato esercitare il legittimo diritto ad esprimere un’opinione contraria nei pressi di luoghi dove si incontrano i vertici del sistema economico. Naturalmente, sul piano formale, le questure vi risponderanno che il diritto a manifestare è pienamente salvaguardato: “andate a Como” ci dicono in questo caso, così come invitano ad andare da un’altra parte quando si fa richiesta di manifestare a Montecitorio. Confiscano un diritto ma lo fanno, per così dire, in modo “democratico”.
E così, come per il diritto di sciopero, che in molti settori dei servizi oltreché per tutti i lavoratori pubblici è stato da tempo devitalizzato, anche il diritto a manifestare viene depotenziato e snaturato.
Mentre i prezzi dei generi essenziali continuano a salire e redditi, salari e pensioni perdono terreno, tenere a bada il dissenso con misure di polizia sempre più rigide diventa un’esigenza politica. E la questione sociale, come già in altri tempi, finisce per incontrarsi con quella democratica.
Come le denunce, i fogli di via e gli arresti per i sindacalisti, come la repressione nei confronti degli attivisti, come le botte agli studenti e ai movimenti sociali, i divieti e le prescrizioni a manifestare sono parte di una logica di contenimento e soffocamento che dobbiamo combattere e respingere. L’autunno che viene è destinato a riproporci il problema.
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