La notizia, uscita qualche giorno fa, in merito alla proposta della Lega Calcio di inserire il riconoscimento facciale ai tornelli di ingresso negli stadi, non dovrebbe stupire. Da decenni l’ambiente dello stadio è utilizzato come banco di prova per l’introduzione e la sperimentazione di misure repressive trasferibili in altri contesti sociali.
Stiamo parlando dell’ipotesi che all’acquisto di un biglietto per una partita venga allegata una liberatoria da firmare per consentire la scannerizzazione del volto al momento dell’accesso all’impianto sportivo.
La schedatura del tifoso che si reca allo stadio viene giustificata dalle autorità con il fine di poter riconoscere senza dubbio alcuno un soggetto nel caso manifesti atteggiamenti razzisti sugli spalti.
Se si analizza questa proposta e la si scompone salta però subito all’occhio la forzatura con cui si vuole porre un nesso posticcio tra l’ulteriore schedatura dei tifosi e la finalità “antirazzista”.
È utile innanzitutto ricordare che il biglietto è già nominale dal 2003 e che dal 2009 è in vigore la “Tessera del tifoso”.
Inoltre, all’interno degli stadi esiste già un sistema di videosorveglianza, elemento che rende praticamente impossibile non ricondurre un qualsiasi comportamento sugli spalti a uno specifico soggetto o gruppo.
Pertanto, a che scopo spendere risorse finanziarie per un complesso sistema video, che appesantirebbe ulteriormente le già complesse procedure di accesso, quando invece – per esempio – si potrebbero migliorare i sempre più fatiscenti impianti sportivi?
Che siano in realtà la “volontà di repressione” di uno degli ultimi spazi aggregativi di questa società iper-individualizzata e il continuo asservimento alle grandi multinazionali “Big Tech” a muovere l’azione delle autorità?
Oltre a questo, e andando al nocciolo etico della questione, qui, ancora una volta, cade la maschera della Lega Calcio (e dello Stato) che esibisce la maschera dell’inclusività per legittimare un procedimento esclusivamente forcaiolo. Il decreto Caivano sulla violenza minorile va nella stessa direzione.
Per arginare il razzismo invece bisognerebbe lavorare sul miglioramento delle condizioni di reddito e di vita, oltre che sulla sensibilizzazione e sull’educazione nel tessuto sociale, quindi a monte del problema e non solo dentro gli stadi.
Bisognerebbe partendo dai quartieri, dalle scuole e sui posti di lavoro, consci che non si tratta affatto di un problema legato al solo “popolino” (come vorrebbe la narrazione mainstream), ma riguarda innanzitutto l’atteggiamento classista e reazionario dell’intera società (padroni, Stato, burocrazia, ecc.), che ormai riverbera il tutto il corpo sociale.
È così che, tolto via il velo di trucco dalla proposta, rimane la solo volontà di far passare un metodo di riconoscimento e controllo estremamente invasivo (che ha già trovato lo sbarramento della legge sulla privacy, ma alla lunga potrebbe non essere sufficiente), in modo tale da poterlo poi riprodurre per manifestazioni, presidi, concerti o qualsivoglia momento aggregativo.
A monito di tutti, è bene ricordare che dal 2017 il Daspo – acronimo di “divieto di accedere alle manifestazioni sportive” – è stato allargato al contesto cittadino (cosiddetto ‘Daspo urbano’), ossia il potenziamento del vecchio “foglio di via” d’epoca fascista, che ha conosciuto un grande utilizzo contro senzatetto e attivisti sociali, sindacali e politici.
Per analizzare queste proposte di manovra bisogna considerare l’ampio spettro di utilizzo all’interno della società, ossia considerarli (parafrasando le tecnologie che vengono usate a scopo sia civile che militare) come mirati a una sorta di dual use stadio-quartieri.
In definitiva, le finalità vanno ben oltre quelle che accompagnano la loro presentazione e puntano a reprimere il dissenso organizzato, limitando (a vari livelli) la libertà personale.
Come recitava uno striscione esposto negli stadi, a metà anni ‘80, “Leggi speciali, oggi per gli ultras, domani in tutta la città”. |