Lo scorso 12 luglio, a tre anni dai fatti, è iniziato il processo di primo grado in Corte d’assise per l’omicidio di Ugo Russo, il carabiniere che ha sparato è imputato di omicidio volontario pluriaggravato. Ripercorriamo la storia di Ugo, della sua terribile morte, della costituzione del Comitato: come siete arrivati fino a qui, e quanta è stata difficile la mobilitazione e l’apertura del processo?
Ugo Russo era un ragazzo di 15 anni, nato e cresciuto nei Quartieri Spagnoli. Nella notte tra il 29 febbraio e il 1° marzo 2020 Ugo è stato ucciso da un carabiniere fuori servizio mentre tentava di sottrargli il rolex con una pistola giocattolo. Il corpo senza vita di Ugo, all’arrivo dei soccorsi, si trovava a svariati metri dall’auto in cui si trovava il carabiniere, con le spalle all’auto. Come le indagini hanno provato in seguito, verso Ugo sono stati esplosi almeno tre colpi, due lo avrebbero colpito al petto e alla spalla e uno, l’ultimo, quello mortale, alla nuca, mentre era ferito e in fuga. Nonostante questi elementi, sufficienti a dimostrare che la morte di Ugo è stata a tutti gli effetti un omicidio, la verità su quanto accaduto quella sera ha fatto – e fa – fatica a emergere. Parte della stampa, dell’opinione pubblica, delle istituzioni stesse hanno riproposto dinamiche e capovolgimenti già visti quando i responsabili di abusi e violenze indossano la divisa, e quando le vittime vengono dai quartieri popolari: Ugo, la vittima, è diventato il colpevole, marchiato come delinquente a soli 15 anni, la sua famiglia è stata passata ai raggi X in cerca di elementi che giustificassero un presunto contesto criminale familiare, il suo quartiere è diventato un covo di criminali incalliti dove il destino di chi ci nasce e ci cresce è quello di diventare a propria volta criminale. L’intera vita di Ugo, un ragazzo di 15 anni, è stata schiacciata su quello che stava facendo in quel momento quella notte, come se questo potesse giustificare la tragedia di una vita spezzata a 15 anni, di chi ha perso un figlio, un fratello, un amico. Il Comitato Verità e Giustizia per Ugo Russo è nato, poco dopo quella notte, per rivendicare appunto verità e giustizia, che purtroppo non sono mai scontate, soprattutto quando si parla delle periferie, dei quartieri popolari, dei territori marginalizzati. Una lotta, quella della famiglia e del Comitato, che in questi tre lunghissimi anni di attesa del processo, ha dovuto contrastare narrazioni distorte e rappresentazioni criminalizzanti insopportabili, quando non veri e propri insulti alla memoria di Ugo e alla sua famiglia. Lo scorso 12 luglio avete convocato un presidio di fronte al tribunale. Com’è andato, che cosa vi aspettate da questo processo, quali sono le prossime date di mobilitazioni?
Come dicevamo ci sono voluti tre anni di indagini e perizie solo per arrivare al rinvio a giudizio del carabiniere (con l’accusa di omicidio volontario pluriaggravato) e all’inizio del processo. Durante le udienze preliminari e la prima udienza del processo vero e proprio del 12 luglio abbiamo sempre convocato un presidio all’esterno del tribunale. Oltre alla famiglia e al Comitato realtà organizzate e singole persone hanno partecipato molte volte a questi presidi e li hanno resi possibili. I presidi sono un momento importante, non solo per portare solidarietà alla famiglia di Ugo e alla loro lotta, ma per dimostrare che esiste un pezzo di società che ha a cuore le vite dei ragazzi e delle ragazze dei nostri territori e che è determinata a ottenere verità e giustizia, per quanto siano difficili e faticose da conquistare. Una giustizia che non si misura semplicemente nel numero di anni di carcere da assegnare, nessuna pena potrà mai restituire Ugo ai suoi affetti, ma che significa prima di tutto fare luce su quanto accaduto quella notte, riconoscere che Ugo è stato ucciso e che la sua morte è stata un omicidio, che verità e giustizia valgono per tutte e tutti, anche quando chi spara indossa una divisa, oppure sono solo parole vuote, che di certi territori non si può parlare solo in termini di ordine pubblico. Ecco cosa ci aspettiamo da questo processo. La prossima udienza del processo sarà il 27 settembre. Noi, come sempre, ci saremo, insieme alla famiglia, per rivendicare verità e giustizia per Ugo Russo. In un comunicato dopo la rivolta francese per l’omicidio del giovane Nahel Merzouk, avete scritto che «in Italia, in un contesto sociale solo in parte differente, troppo spesso si assiste al processo di criminalizzazione della vittima per delegittimare la protesta e distogliere l’attenzione dal responsabile». In che modo la vostra mobilitazione è stata delegittimata e osteggiata anche mediaticamente?
Da subito l’omicidio di Ugo è stato inserito in un quadro narrativo ben preciso: il ragazzo dei quartieri popolari destinato fatalmente a essere un criminale che “se l’è andata a cercare”. Questa narrazione stereotipata da criminologia spicciola è davvero insopportabile. Una valanga di fango si è abbattuta sulla famiglia di Ugo e sul quartiere dove è nato e cresciuto, con le solite argomentazioni del quartiere popolare descritto come incubatore di criminalità e illegalità. E poi ovviamente, visto che siamo al Sud, l’equivalenza immediatamente successiva è quella tra illegalità e camorra. E la parola camorra – come mafia o ndrangheta – diventa un dispositivo micidiale di silenziamento, che ti fa il vuoto attorno, perché nessuno vuole sentirsi associato a questa parola. Ogni legittima rivendicazione di verità e giustizia, a cui chiunque avrebbe diritto indipendentemente da ciò che ha fatto o dai suoi precedenti penali, viene così automaticamente screditata. Nel caso della famiglia di Ugo e del percorso del Comitato un’intera lotta è stata privata di valore perché associata a questa parola, soprattutto considerato che dall’altro lato c’è chi rappresenta lo Stato.
Davvero è sufficiente che Ugo stesse tentando una rapina con una pistola giocattolo per diventare, secondo certa stampa e certa opinione pubblica, un criminale incallito e un camorrista a 15 anni? Davvero se si nasce in certi quartieri o territori, appena si inciampa, si diventa automaticamente dei criminali a vita? Ugo è stato ossessivamente descritto da certe testate giornalistiche come “baby rapinatore”, come se fosse qualcosa scritto nella sua biologia, un tratto ineliminabile della sua persona. Perfino il murale in suo ricordo, che la famiglia stessa ha voluto come richiesta di verità e giustizia e, per loro stessa affermazione, monito ai ragazzi e alle ragazze di questi territori, è stato descritto come «murale della camorra»: una descrizione che stride con il fatto che quel murale è stato realizzato con tutte le autorizzazioni del caso e che sotto recitava a lettere enormi «Verità e Giustizia», non proprio un’espressione associabile alla criminalità organizzata. E l’accusa di connivenza o favoreggiamento dell’illegalità e della camorra ha colpito chiunque abbia mostrato solidarietà alla famiglia. Napoli è spesso raccontata come la città della criminalità giovanile, spesso questa narrazione viene romanticizzata in serie televisive – l’ultima di grande successo è Mare Fuori – in forma di pacchetti vacanze per turisti mordi e fuggi della città. Ma la realtà è ben diversa da questa rappresentazione, e chi ne paga le conseguenze sono ancora i ragazzi delle classi popolari…
Si, è proprio questo il punto. Napoli, come spesso accade per il Sud in generale, è da un lato lo scenario folkloristico tanto allettante e affascinante per il turismo di massa, dall’altro un luogo pericoloso, insicuro, dominato dall’illegalità predatoria, un costante problema di sicurezza e ordine pubblico. La verità è che dietro la patina scintillante della città vetrina, del parco giochi aperto a tutte le ore per il turismo di massa, si celano processi feroci di messa a valore e sfruttamento: agli enormi profitti dei settori dell’accoglienza e della ristorazione fanno da contraltare salari da fame – che nella ristorazione si aggirano attorno ai 3-4 euro l’ora – e condizioni di lavoro inaccettabili.
Così mentre le vie del turismo si ripuliscono e si riempiono di negozi, friggitorie e b&b, nelle periferie e nei quartieri popolari le condizioni di vita rimangono preda della precarietà, del disagio abitativo, dell’assenza di servizi, dell’assenza di spazi di socialità e formazione. Di questi territori non si parla mai, se non per descriverli come un problema di ordine pubblico, o per l’occasionale gita “caratteristica” al murale di Maradona o al basso. Anche qui è all’opera un vero e proprio capovolgimento: il degrado non è colpa di chi abbandona questi territori e li priva di possibilità, ma di chi li abita. Molto spesso invece la linea che separa decoro e degrado coincide con la linea che separa il privilegio dall’assenza di privilegio: si dovrebbe ragionare su come garantire condizioni di vita dignitose a chi nasce e cresce in questi quartieri, a ragazze e ragazzi come Ugo i cui desideri e le cui aspirazioni sono costantemente frustrati dall’abbandono e dalla marginalizzazione a cui vengono consegnati questi territori. La battaglia della famiglia e del Comitato è anche per queste ragazze e questi ragazzi. Le lotte contro la violenza e l’impunità della polizia in Italia (con le vicende Cucchi, Aldrovandi etc) hanno una storia, ma i processi sono sempre difficili da portare avanti. Quali sono le alleanze che avete trovato in città e fuori, ad esempio con le altre lotte contro la violenza patriarcale, razzista, o le lotte contro la disoccupazione e la povertà?
Sappiamo che anche questo percorso sarà difficile, e che ogni pezzo di verità andrà conquistato e difeso con determinazione, ma sappiamo anche che abbiamo ricevuto tanta solidarietà e che non siamo sole e soli. Innanzitutto in città, dove spazi sociali e realtà di base, realtà femministe e movimenti di disoccupate e disoccupati, hanno sempre sostenuto attivamente le rivendicazioni della famiglia, partecipando ai presidi, ai cortei, alle iniziative. Ma anche intellettuali e personalità del mondo della cultura, a Napoli come altrove, hanno preso parola in solidarietà con la famiglia di Ugo, aiutando a riequilibrare lo spazio del discorso su questa vicenda.
Abbiamo anche potuto raccontare la storia di Ugo in altre città, a Catania, a Roma, a Torino, a Monza, con chi ogni giorno vive le periferie e i quartieri popolari e con chi non accetta le rappresentazioni stereotipate e preconfezionate ma cerca ogni giorno di costruire un mondo migliore e più giusto per tutte e tutti. Sarebbe troppo lungo nominare ogni persona, ogni gruppo, ogni realtà che ha dato forza a questo percorso, tuttavia senza tutte e tutti loro questa lotta non sarebbe stata e non sarebbe possibile. |