1. Mentre gira la giostra di delegittimazione della giudice Apostolico, si perde sullo sfondo ciò che deve restare al centro della scena: le ragioni per cui la sua ordinanza (Trib. Catania, Sez. Immigrazione, 29 settembre 2023) non ha convalidato il trattenimento di tre tunisini entrati irregolarmente in Italia. Se impugnata dal Governo, sarà la Cassazione a valutarne la correttezza giuridica. Ma non potrà certo contestarne la premessa generale, secondo cui “il trattenimento deve considerarsi misura eccezionale e limitativa della libertà personale”. Una premessa ora ribadita dall’ordinanza emessa da altro giudice dello stesso tribunale (in data 8 ottobre 2023): cercasi video. Invece di partecipare al rodeo polemico in corso, di questo servirebbe ragionare: di una detenzione formalmente amministrativa che maschera una misura sostanzialmente penale, in assenza di colpa e di reato e che, quanto a durata, tocca oggi la vetta dolomitica dei 18 mesi.
2. Ufficialmente, il nostro ordinamento nega ogni assimilazione tra centri per migranti e circuito penitenziario. Ma una bugia, per quanto scritta in Gazzetta Ufficiale, resta sempre una bugia. Vale, innanzitutto, per gli acronimi con cui – nel tempo – la legge li ha battezzati: CPTA, CPT, CIE, CPR. Sono falsi nomi scelti per non usare quello corrente in Europa, “centri di detenzione amministrativa”, che ha il difetto di richiamare la condizione di un soggetto in vinculis, nella disponibilità fi sica dello Stato. La detenzione, infatti, era la misura restrittiva della libertà personale, alternativa alla reclusione, che il codice penale Zanardelli stabiliva per i reati meno gravi. Ne reca ancora traccia la lingua italiana, dove la parola è sinonimo di prigionia, carcerazione. Lo conferma l’art. 13 Cost., il cui 2° comma include la detenzione tra le forme restrittive della libertà personale. Evitando quel nome, si è tentato di accreditare la tesi minimalista di un trattenimento che inciderebbe solo sulla libertà di circolazione e di soggiorno (art. 16 Cost.), senza coartare la libertà personale del migrante, intendendo così sottrarre la misura alle garanzie proprie dell’habeas corpus. “Detenzione”, dunque, è un nome indicibile perché presenta l’inconveniente di indicare i centri per quello che sono: una “galera amministrativa”.
3. È stata la Corte costituzionale – in solido con la Corte EDU – a smentire queste falsificazioni semantiche. Sia il trattenimento nei centri (sent. n. 105/2001), sia il respingimento con accompagnamento coattivo alla frontiera (sent. n. 275/2017) determinano “quella mortificazione della dignità dell’uomo che si verifica in ogni evenienza di assoggettamento fisico all’altrui potere e che è indice sicuro dell’attinenza della misura alla sfera della libertà personale”. Non a caso, i garanti dei diritti dei detenuti esercitano le proprie funzioni anche all’interno dei CPR e il Garante nazionale in qualsiasi struttura analoga, finanche negli aerei usati per il rimpatrio. Del resto, la tetra architettura che sovrasta i dieci CPR attualmente esistenti in Italia (Milano, Torino, Gradisca d’Isonzo, Roma, Palazzo San Gervaso, Macomer, Brindisi, Bari, Trapani, Caltanissetta) ricalca il modello tipico della prigione. Esemplare quello barese: ingressi militarizzati e blindati; celle chiuse dall’esterno sorvegliate da forze dell’ordine; spioncini alle porte metalliche; finestre con inferriate anti-evasione; illuminazione a comando esterno affidato ai vigilanti; moduli d’arredo fissi al pavimento; servizi igienici privi di riservatezza; recinti metallici videosorvegliati (cfr. l’Unità, 22 settembre). Lo confermano, infine, i rapporti all’esito dei sopralluoghi svolti da apposite Commissioni parlamentari, nelle passate legislature: i centri per stranieri sono, in tutto e per tutto, carceri extra ordinem.
4. Definirli così non è una provocazione, ma un dato giuridico. In violazione del principio nulla poena sine crimine, i loro “ospiti” non sono accusati di alcun reato e la loro condizione di irregolari destinati all’espulsione si forma – normalmente – fuori dal circuito penale. In violazione della riserva di legge, che secondo l’art. 13 Cost. deve stabilire “i modi” di ogni restrizione della libertà personale, l’organizzazione di questi centri è disciplinata da un decreto del Ministro dell’interno (20 ottobre 2014, n. 12700). Si tratta, infine, di una detenzione privatizzata, appaltata a enti interessati al minimo costo gestionale e al massimo profitto, correlato al più alto numero di migranti trattenuti. Misurati con il metro dello Stato di diritto, dunque, i CPR sono luoghi dove lo stato d’eccezione si fa regola, applicata a stranieri da considerare “fuorilegge” non perché la trasgrediscano, ma perché nessuna legge li riconosce e li protegge adeguatamente.
5. È per centri siffatti che è stata decretata la straordinaria necessità e urgenza di prolungare la detenzione fi no a un anno e mezzo, oltre a programmarne la realizzazione di ulteriori (artt. 20 e 21, decreto-legge n. 124 del 2023). Eppure, il Governo sa bene che non esiste alcuna relazione tra rimpatrio e durata del trattenimento. Dati alla mano, lo ha spiegato il Garante nazionale Mauro Palma, relazionando alle Camere il 15 giugno scorso: “la percentuale di rimpatri non ha mai raggiunto il 60% delle persone ristrette anche per lungo tempo in tali strutture”. I fattori in grado di sbloccare una procedura espulsiva inceppata sono altri: l’esistenza di accordi bilaterali con il paese d’origine; la collaborazione tra autorità consolari; l’efficacia investigativa di polizia nell’identificare il soggetto da espellere. A cosa serve, allora, elevare la galera (amministrativa) fi no a 18 mesi? Serve a costringere per sfinimento il migrante a collaborare all’espulsione, “perché se si ha la prospettiva di dover rimanere nei centri 1 mese si resiste, 2 mesi è già più difficile, mentre credo che nessuno possa pensare di non farsi riconoscere e resistere per 18 mesi”: così parlò il Ministro degli interni Maroni, il cui “pacchetto sicurezza” (decreto-legge n. 92 del 2008) già fissava la durata del trattenimento a un anno e mezzo. Quella dismisura – disse, inciampando in un lapsus rivelativo – evitava un “indulto permanente” a favore dei migranti trattenuti: evocando un atto di clemenza, confermava così il suo autentico pensiero secondo cui il centro è una galera, il trattenimento è una pena, lo straniero irregolare è un criminale. “Ce lo chiede l’Europa”, si sente dire, ma è un finto alibi. I termini per il trattenimento indicati dalla direttiva UE (6 mesi, prorogabili “per un periodo limitato non superiore ad altri 12 mesi”) sono limiti massimi che lasciano liberi gli Stati di fissare periodi (anche significativamente) più brevi. La scelta più severa possibile del Governo, allora, esprime la faccia feroce che assicura consenso, ma non accresce la sicurezza collettiva: affolla le presenze nei CPR che vuole anche moltiplicare di numero, benché si tratti di polveriere pronte a esplodere. Perché questo accade, prima o poi, quando si spegne il fuoco con il fuoco.
6. Si arriva così al punto fondamentale. Nascondere la natura intrinsecamente penale di una misura è una frode alle Carte dei diritti. Come la Corte EDU, così anche la Consulta privilegia la sostanza sull’apparenza normativa: se una misura incide significativamente sulla libertà personale, tanto basta a modificarne la natura giuridica (sent. n. 32/2020). Vale anche per il trattenimento nei centri, assimilabile per afflittività alla reclusione in carcere. La sua nuova durata, allora, opererà solo per il futuro perché è vietata la retroattività di norme punitive sfavorevoli (art. 25, 2° comma, Cost.): il limite massimo di 18 mesi, dunque, non potrà applicarsi ai migranti già rinchiusi in un CPR prima dell’entrata in vigore del decreto-legge n. 124 del 2023. È così difficile da capire? Tocca ai giudici della convalida dei trattenimenti smascherare questa truffa delle etichette. Video permettendo. |