Alcuni giorni fa il Capo di Stato maggiore della Difesa Giuseppe Capo Dragone, nel corso di un’audizione congiunta presso le Commissioni esteri e difesa di camera e senato ha espresso la necessità di un significativo aumento del personale militare – 10.000 unità in aggiunta alle 160.000 previste dall’attuale Modello di Difesa – per far fronte ai numerosi impegni internazionali. A questo ha fatto seguito la proposta di istituire una riserva ausiliaria dello Stato, un corpo cioè di riservisti, come già presente in diversi altri Stati (Israele e Svizzera ad esempio…) da impiegare in caso di guerra o crisi internazionale, oppure in caso di calamità naturali, perché “se si alimentano le seconde linee ci sono più militari di professione che possono essere impiegati nelle zone più a rischio”.
Pochi giorni prima era stato il ministro Guido Crosetto, noto per essere stato per molti anni il presidente della Confindustria delle imprese militari (Il braccio armato del governo), a formulare lo stesso concetto in quella stessa sede, quando aveva evidenziato la necessità di un intervento legislativo del parlamento in questa direzione e preannunciato quindi un deciso incremento delle spese militari nei prossimi anni, per raggiungere l’obiettivo del 2 per cento del Pil in spese per la Difesa previsto dall’impegno preso dai paesi Nato in Galles nel 2014, con un incremento quindi di circa 15 miliardi di euro, dai 27,7 miliardi di quest’anno a 42 miliardi previsti per il 2028.
Con poco clamore, in verità una proposta di Legge per “L’Istituzione della Riserva militare per la mobilitazione” è stata depositata alla camera già nel 2021 dal parlamentare della Lega Nord Roberto Paolo Ferrari.
In tutte queste circostanze si parla senza pudore alcuno di tempo di guerra e di gravi crisi internazionali, in barba a una Costituzione che stabilisce che “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”.
Ma non è tutto. Negli stessi giorni, con uno stridore che balza agli occhi, Caritas Italiana pubblica il Rapporto su povertà ed esclusione sociale in Italia 2023 in cui afferma che quest’anno “si contano oltre 5,6 milioni di poveri assoluti, pari al 9,7 per cento della popolazione; un residente su dieci oggi non ha accesso dunque a un livello di vita dignitoso” sottolineando come sia un fenomeno ormai strutturale e non più residuale come era in passato. Dati in crescita rispetto all’anno precedente: “I poveri assoluti – scrive la Caritas Italiana – nel 2022 salgono da 5 milioni 317 mila a 5 milioni 674 mila (più 357mila unità). L’incidenza passa dal 9,1 per cento al 9,7 per cento. Se si considerano i nuclei, si contano 2 milioni 187mila famiglie in povertà assoluta, a fronte dei 2 milioni 22mila famiglie del 2021 (più 165mila nuclei)”. Particolarmente inquietante il dato secondo cui quasi la metà delle 2 milioni e 187 mila famiglie in stato di povertà non si trova in questa situazione per mancanza di lavoro: il 47 per cento dei loro “capifamiglia” infatti risulta essere occupato.
Un contrasto odioso: in un paese nel quale aumenta la povertà, in cui la cronaca è segnata da fatti di violenza che denotano una povertà culturale e valoriale che chiederebbe massicci interventi educativi, in una realtà globale in cui guerra la fa sempre più da padrone, si vogliono aumentare le spese di morte. |