È passato effettivamente qualche tempo da quanto Matteo Salvini e Giorgia Meloni promettevano pubblicamente, un giorno sì e l’altro pure, ai sindacati di polizia (soprattutto penitenziari) più destrorsi di cancellare o neutralizzare la legge 110 che, dopo quasi trent’anni dalla ratifica italiana della relativa Convenzione Onu, ha introdotto nel 2017 il reato di tortura nel nostro ordinamento penale. Ma da qui, dalle promesse fatte ora in sordina, fino a giurare davanti al Consiglio d’Europa – impegnato questa settimana a vigilare sull’esecuzione della condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo emessa nel 2015 in merito alla «mattanza» compiuta dentro la scuola Diaz e nella caserma di Bolzaneto durante il G8 di Genova – che il governo italiano non ha «alcuna intenzione di abrogare l’attuale reato di tortura previsto dal codice penale», ce ne passa.
Non solo: l’esecutivo Meloni ha tentato di rassicurare l’organizzazione internazionale con sede a Strasburgo – che preme affinché l’Italia garantisca a tutti gli effetti lo stato di diritto – giocandosi la carta dei progetti di legge che introducono i codici identificativi per gli agenti di tutte le forze di polizia. Proposte in realtà presentate dalle opposizioni e osteggiate dalla maggioranza, negli anni più volte assegnate e poi bloccate nelle commissioni parlamentari.
IL COMITATO DEI MINISTRI del Consiglio d’Europa infatti, dopo aver «constatato con profondo rammarico che lo statuto di prescrizione precluda l’apertura di qualsiasi nuova indagine sugli atti di tortura subiti» durante il G8 del 2001 da Arnaldo Cestaro e dagli atri ricorrenti, ha chiesto conto con preoccupazione dei progetti di legge (presentanti da Fd’I in entrambe le camere e assegnati già alle commissioni in sede referente) volti ad abrogare il reato di tortura per sostituirlo con «un’aggravante generica sui reati di lesioni personali (art. 582) o percosse (art.581), quando sono commessi da un pubblico ufficiale infliggendo dolore fisico o psicologico acuto o sofferenza a una persona con l’obiettivo di ottenere informazioni».
Per la cronaca, c’è anche un terzo Pdl del M5S il cui obiettivo sarebbe quello di correggere alcune «storture» della legge per migliorarne l’applicazione, ma che rischia di trasformarsi in un’occasione d’oro per gli abolizionisti.
IN OGNI CASO, rispondendo a Strasburgo, «le autorità italiane hanno sottolineato che la posizione del governo, come trasmessa al parlamento italiano dal ministro della Giustizia, è quella di mantenere le disposizioni del codice penale sulla tortura, che rimarranno un reato specifico». E, alla richiesta esplicita che «un messaggio ad alto livello politico di tolleranza zero sui maltrattamenti sia formalmente consegnato alle forze dell’ordine pubblico», il governo Meloni ha risposto citando «una direttiva emessa dal Capo della Polizia nel 2009 e le Linee guida emanate dal Ministero degli Interni nel 2019 (dicembre, quando c’era Lamorgese, ndr) e aggiornate nel 2021 che forniscono indicazioni agli agenti» sui limiti da usare nella forza pubblica. Tutta farina di altri sacchi, insomma.
In parte rassicurato, l’esecutivo del Consiglio d’Europa ha comunque invitato «caldamente le autorità italiane a garantire che qualsiasi eventuale modifica al reato di tortura sia conforme ai requisiti della Convenzione europea dei diritti umani e alla giurisprudenza della Cedu».
EPPURE, MANCA ANCORA una legge che introduca i codici alfanumerici per identificare agenti e carabinieri. Strasburgo ne chiede conto, preme perché si agisca «rapidamente». Ma anche in questo caso il governo italiano ha informato i ministri dei 46 Paesi Ue che sono stati depositati in materia tre progetti di legge alla Camera e due al Senato (ma sono di +Europa e delle altre opposizioni), e che già sono state distribuite molte bodycam da applicare sui caschi delle forze dell’ordine.
IL CONSIGLIO D’EUROPA stavolta non ci casca. E «osserva che il loro uso, come indicato dalle autorità, mira a documentare eventi pubblici e, in questo contesto, episodi di violenza che possono scoppiare anche contro gli agenti». Ne consegue che, «sebbene si tratti di uno sviluppo interessante», l’iniziativa «non sembra garantire l’identificazione degli agenti da parte di persone» maltrattate «durante un’operazione di contrasto» o mentre sono «sotto la custodia della polizia, come richiesto dalla giurisprudenza della Corte». |