In particolare su quanto accaduto a Pisa la procura ha aperto un fascicolo d’indagine, al momento verso ignoti, per ricostruire con precisione l’accaduto e le eventuali responsabilità della catena di comando. Secondo quanto riportato dal Corriere della Sera, al vaglio degli inquirenti ci sarebbe la posizione di quindici agenti. In una nota, la polizia ha sottolineato che la manifestazione non era stata preavvisata dagli organizzatori e che nel corso della giornata sarebbero emerse «difficoltà operative di gestione».
Nei giorni scorsi, Silvia Conte, la dirigente del Reparto mobile di Firenze, è stata rimossa e trasferita ad altro incarico. La funzionaria non ha avuto ruoli operativi nella gestione dell’ordine pubblico né per quanto riguarda Pisa, né a Firenze, ma ha disposto solo l’invio delle squadre di agenti richieste dalle due Questure.
Su quanto accaduto si è espresso anche il presidente della Repubblica Sergio Mattarella che in un comunicato ufficiale rilasciato il 24 febbraio ha dichiarato di aver «fatto presente al ministro dell’Interno, trovandone condivisione, che l’autorevolezza delle Forze dell’Ordine non si misura sui manganelli ma sulla capacità di assicurare sicurezza tutelando, al contempo, la libertà di manifestare pubblicamente opinioni. Con i ragazzi i manganelli esprimono un fallimento».
Successivamente a questa dichiarazione la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha commentato per la prima volta i fatti di Pisa affermando: «Penso che sia molto pericoloso togliere il sostegno delle istituzioni a chi ogni giorno rischia la sua incolumità per garantire la nostra: è un gioco che può diventare molto pericoloso», snocciolando poi alcuni dati sui ferimenti degli agenti in divisa a partire dal 7 ottobre e durante tutto il 2023.
Come abbiamo spiegato in un recente approfondimento su Facta, il dibattito sulla manifestazione di Pisa è stato subito inquinato da diverse narrazioni di disinformazione che si sono basate su ricostruzioni parziali e immagini decontestualizzate, che hanno aggiunto confusione a una vicenda già di per sé piuttosto delicata e complessa. Per capire di cosa si parla quando si parla di violenza, manifestazioni e ordine pubblico è importante porsi alcune domande come: chi controlla le forze di Polizia in Italia? Esistono dati sugli abusi da parte delle forze di Polizia? La risposta non è così semplice: proviamo a fare chiarezza.
I dati sulle violenze
Il 27 febbraio 2024 il giornale Il Foglio ha pubblicato un articolo in cui sostiene che «i cortei sono sempre una violenza», facendo riferimento al fatto che i manifestanti sarebbero sempre violenti. In realtà si tratta di un’affermazione priva di riscontro.
Secondo un dossier del ministero dell’Interno pubblicato il 15 agosto 2023, infatti, tra il 1° gennaio 2023 e il 31 luglio dello stesso anno si sono svolte in Italia 6.631 manifestazioni di piazza di cui solo 243 con criticità, circa il 3,6 per cento del totale. Come spiegato a Facta da Stefano Paoloni, segretario generale del Sindacato autonomo della Polizia (SAP) questo termine indica manifestazioni in cui «ci sono stati lanci di oggetti oppure siamo dovuti intervenire con cariche di alleggerimento».
Manifestazioni, cioè, che non si sono svolte regolarmente, dove c’è stato il tentativo di violare le norme e le prescrizioni previste. Secondo lo stesso report del Viminale nello stesso periodo del 2022, invece, ci sono state 7.920 manifestazioni di piazza di cui 236 con criticità, leggermente meno del 3 per cento.
Per quanto riguarda la ‘violenza subita dagli agenti di Polizia’, esiste un Osservatorio gestito dall’Associazione sostenitori e amici della Polizia stradale (Asaps), l’osservatorio “Sbirri Pikkiati”, che secondo il segretario del SAP è un ente affidabile, il quale registra gli attacchi fisici che hanno provocato lesioni refertate presso il pronto soccorso agli operatori di Polizia durante i controlli su strada. Da questi dati sono escluse le aggressioni avvenute nella gestione dell’ordine pubblico e le altre non conseguenti al controllo del territorio. Secondo quanto riportato, nel 2022 sono stati 2.678 gli episodi registrati.
Se è, però, possibile avere un dato che riguardi comportamenti critici da parte dei manifestanti, e un altro che riguarda le violenze subite dagli agenti di Polizia durante le loro attività di controllo del territorio, ad oggi in Italia non esiste alcun dato riguardo gli abusi di violenza da parte delle forze di Polizia su manifestanti e civili. Vuoto che non permette di avere un quadro realistico sull’abuso di violenza da parte della Polizia.
La redazione di Facta ha provato a contattare il ministero dell’Interno per avere una sua dichiarazione rispetto alla mancanza di dati, ma non ha ottenuto risposta.
Chi controlla la Polizia?
In Italia, oltre a dati ufficiali riguardo questo tipo di violenza e abuso della Polizia, non esiste nemmeno un soggetto indipendente che controlli l’operato delle forze dell’ordine.
Italo Di Sabato, coordinatore di Osservatorio Repressione, un’associazione che ha come obiettivo quello di promuovere e coordinare studi, ricerche, dibattiti e seminari sui temi della repressione, della legislazione speciale e della situazione carceraria, ha raccontato a Facta che da tempo vari organismi indipendenti chiedono «l’istituzione di una commissione indipendente che possa verificare i casi di violenza, abusi e soprusi da parte da parte delle forze dell’ordine» poiché attualmente «non c’è nessun organismo che possa vigilare sugli atteggiamenti sui comportamenti da parte delle forze dell’ordine».
In Francia, ad esempio, esiste un ente amministrativo indipendente che si occupa di controllare l’operato della polizia, il cosiddetto Difensore dei diritti (Défenseur des droits in francese), e soggetti simili sono previsti anche in altri Paesi dell’Unione europea, ma non in Italia.
In generale si tratta di enti esterni alla polizia, che hanno un certo grado di indipendenza dal governo e con l’incarico di assicurare che coloro che operano nell’ambito della sicurezza pubblica rispettino le norme di comportamento e di difendere i diritti e le libertà dei cittadini in caso di eventuali abusi.
In alcuni casi, tali organismi indipendenti dispongono del potere di intervento diretto, ma la loro efficacia è spesso limitata per varie ragioni, inclusa la carenza di risorse. Nonostante ciò, però, enti di questo tipo rivestono un’importanza significativa poiché frequentemente consentono di superare la tendenza al corporativismo, dinamica che nel nostro Paese è stata fotografata dalla sentenza definitiva per l’omicidio di Stefano Cucchi, con cui i giudici della Quinta Sezione della Corte di Cassazione hanno condannato a 12 anni per omicidio preterintenzionale i due carabinieri Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro, mentre la prescrizione ha cancellato le condanne di altri due carabinieri accusati di falso.
Come ha spiegato a Facta Stefano Paoloni, in Italia è l’autorità giudiziaria che ha «il compito di verificare il rispetto delle regole ed eventualmente sanzionare», aggiungendo che «esiste anche internamente un regolamento interno che valuta se ci sono delle mancanze a livello disciplinare». Quando, però, le indagini sui presunti abusi sono affidate dai pubblici ministeri allo stesso corpo degli agenti indagati, sorge il rischio di insabbiamenti, coperture o impunità, oltre a potenziali mancanze di imparzialità nelle procedure.
Ad esempio, nel 2020 una coppia di fidanzati aveva denunciato di aver subito violenza nel commissariato di Sassuolo. Le violenze avevano portato a una prognosi di 20 giorni per uno dei due ed entrambi erano stati obbligati a spogliarsi nel corridoio e assumere posizioni umilianti. La procura di Modena ha chiesto l’archiviazione del caso e nonostante le testimonianze, i certificati medici e i video delle telecamere di sorveglianza, la richiesta di archiviazione è stata accolta dal GIP. Del caso ora si occuperà la Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) e due parlamentari, Ivan Scalfarotto e Stefano Vaccari, hanno presentato interrogazioni.
In particolare, Scalfarotto, capogruppo di Italia Viva, in Commissione Giustizia ha sottoposto un’interrogazione al ministro Nordio e al ministro Piantedosi, chiedendo tra le altre cose «per quali ragioni la procura di Modena, in relazione ai fatti relativi alla coppia, ha ritenuto di affidare l’indagine ai colleghi degli indagati?».
Può essere utile ricordare anche che molti dei dirigenti delle forze dell’ordine, giudicati per gli eventi di Genova nel 2001, hanno avanzato nella carriera nei dieci anni successivi al G8. Merita una riflessione anche il fatto che alcuni agenti della polizia penitenziaria, sottoposti a processo per le violenze e le torture commesse nel 2020 contro i detenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, in provincia di Caserta, sono stati successivamente reintegrati.
Un portavoce dell’Associazione contro gli abusi in divisa (Acad) ha spiegato a Facta che «esistono alcune associazioni che monitorano il rispetto dei diritti umani ma sono a loro volta soggette alle pesanti attenzioni degli apparati di forze dell’ordine».
Secondo Italo Di Sabato una delle soluzioni da adottare per iniziare a riconoscere e contare le violenze da parte della Polizia è l’introduzione di codici alfanumerici per il riconoscimento dei poliziotti durante le manifestazioni di piazza, sistema già utilizzato da vari Paesi dell’Unione europea come la Francia o il Belgio e pratica richiesta anche da ONG come Amnesty International.
Come spiegato da Pagella Politica, il 19 settembre 2001 il Consiglio d’Europa – che non è un’istituzione dell’UE e non va confuso con il Consiglio dell’UE e il Consiglio europeo – ha approvato con una raccomandazione il “Codice etico europeo di Polizia”.
Questo documento invitava gli Stati membri a far sì che, nel corso di manifestazioni pubbliche, ciascun agente di polizia fosse riconoscibile e identificabile. Dieci anni dopo, il 12 novembre 2012, il Parlamento europeo ha esortato con una risoluzione gli Stati UE a introdurre il numero identificativo per le forze dell’ordine.
Nel corso degli anni, le principali organizzazioni sindacali del settore, tra cui il Sindacato italiano unitario lavoratori polizia (Siulp), il Sindacato autonomo di polizia (SAP) e la Federazione sindacale di polizia (FSP), hanno manifestato più volte la propria opposizione nei confronti dei codici identificativi apposti sulle divise e sui caschi della polizia.
Un altro punto importante da ricordare, quando si parla di controllo delle forze di Polizia e di violenza nelle manifestazioni di piazza, è che ad oggi nel nostro Paese non esistono regole di ingaggio – cioè regole che definiscono, nelle azioni di polizia, quando, dove e come le forze in campo debbano essere utilizzate – che siano codificate per l’ordine pubblico in Italia.
Sempre Stefano Paoloni ha spiegato a Facta che «esistono alcune tecniche operative delineate a livello nazionale, ma non regole precise». Nello specifico le regole di ingaggio vengono decise «caso per caso in base alle valutazioni del comitato di ordine e sicurezza pubblica, poi del questore come autorità di sicurezza pubblica locale» per essere, infine, declinate in concreto dal funzionario responsabile dell’ordine pubblico.
Le manifestazioni vanno autorizzate?
L’articolo pubblicato da Il Foglio contiene un’altra notizia fuorviante, che nei giorni scorsi si è ampiamente diffusa sui social, ma non solo, ed è quella secondo cui le manifestazioni dovrebbero passare al vaglio di una procedura di autorizzazione da parte delle forze dell’ordine.
In realtà, in Italia, come stabilito dall’articolo 17 della Costituzione, «i cittadini hanno diritto di riunirsi pacificamente e senz’armi». La regola base non prevede dunque autorizzazioni, ma, come sancito dall’articolo 18 del Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza (Tulps), è sufficiente un semplice preavviso di tre giorni al questore.
Le manifestazioni non si autorizzano, insomma, ma si preavvisano e la Polizia di Stato può imporre limitazioni al diritto di riunione solo nei casi e con le modalità previste dalla legge. Queste limitazioni devono comunque essere giustificate da motivate ragioni di ordine pubblico o perché la protesta in sé costituisce reato.
Molto più spesso, invece, agli organizzatori viene chiesto di spostare date, orari o luogo di ritrovo per motivi di opportunità, perché la piazza in questione è già occupata da un altro evento o perché nei dintorni è in programma un’altra protesta. Al preavviso può anche non seguire alcuna risposta da parte della Questura e in questo caso vige la regola del silenzio-assenso.
Quella sancita dall’articolo 17 della Costituzione viene chiamata “libertà negativa”, o libertà come assenza d’impedimento. Questa terminologia indica la possibilità che qualcuno ha di agire senza che nessuno intervenga a ostacolarlo. E secondo un documento del 2006 pubblicato dalla Polizia di Stato, le libertà negative sono definite anche come diritti inviolabili, nel senso che la legge ordinaria non potrà mai restringere in maniera sostanziale, né tanto meno eliminare dall’ordinamento questi diritti. |