NON C'E' FEDE SENZA LOTTA

LA GENESI DELLA REPRESSIONE

NOI DA NOVE ANNI CONOSCIAMO LA VERITA'!

laboratoridirepressione

SPEZIALELIBERO

DAVIDE LIBERO











Perché la polizia dovrebbe scusarsi prima di tornare nella scuola Diaz

 

FONTE:La Repubblica

 

A Genova la polizia viene invitata a un evento di orientamento formativo presso la scuola Diaz che vide la notte di sangue del 21 luglio 2001. I collettivi studenteschi non ci stanno, e si attirano addosso critiche feroci e minacce di sospensioni per uno striscione. Ma hanno ragione loro. Perché la memoria collettiva va curata e conservata, non forzata a spallate

 

Esistono luoghi che hanno smesso da tempo di essere semplici parti dello spazio per assumere un significato anche simbolico e storico, perché rappresentano ferite e traumi collettivi mai guariti. È il caso della scuola Diaz, che oggi ha un nuovo nome – liceo Pertini – ma che è e resterà per sempre la stessa scuola Diaz di quella notte del 21 luglio 2001.

Lo sappiamo noi che all’epoca eravamo al liceo, all’università oppure persone già adulte che assistevano incredule a una delle pagine più vergognose della storia europea. Lo sanno bene però anche le ragazze e i ragazzi che frequentano oggi quel liceo, come è giusto e doveroso che sia, e come ognuno di noi dovrebbe ben capire, perché nella memoria collettiva restano e devono restare indelebili le ombre delle 93 persone pacifiche e inermi che dormivano nella palestra di quella scuola, dopo i tre drammatici giorni del G8, e che furono sorprese nel sonno e pestate a sangue dalle forze dell’ordine: 82 feriti, 63 dei quali trasportati in ospedale, 3 in prognosi riservata. Restano le ombre di 19 persone tra queste, portate alla caserma di Bolzaneto e sottoposte a torture e trattamenti degradanti.

Restano le ombre di 346 poliziotti e 149 carabinieri che hanno partecipato all’irruzione, definita poi da uno di loro “una macelleria messicana”, che è valsa una condanna senza appello della Corte Europea dei Diritti Umani di Strasburgo. E restano, di conseguenza, le ombre nemmeno troppo metaforiche di uno stato di diritto violato, dell’abuso di potere e di un totale spregio per la democrazia, che si è spinto fino all’incredibile vergogna di fabbricare prove false per giustificare il pestaggio e accusare indegnamente le vittime.

Esistono, forse, paesi che hanno cura dei loro traumi, e che cercano di rielaborare collettivamente quello che è accaduto nei loro confini. Non è purtroppo il caso dell’Italia, e non è certo il caso della scuola di Genova che ora si chiama Pertini e che un tempo si chiamava Diaz, in cui da anni i collettivi studenteschi e vari consiglieri comunali cercano – incredibilmente senza alcun esito – di far affiggere almeno una targa che ricordi quello che è accaduto lì dentro nella notte del 21 luglio 2001.

Non è il caso dell’Italia, dal momento che ancora oggi, nel marzo dell’anno 2024, in quella scuola accade qualcosa di inaccettabile. Accade che nell’ambito delle 30 ore di orientamento formativo venga invitata anche la polizia di stato, “per descrivere le prospettive di studio e lavoro all’interno di quel percorso”. E accade, di conseguenza, che la reazione del collettivo studentesco sia ferma e decisa: “A pochi giorni di distanza dalle violente cariche della polizia contro gli studenti di Pisa, Firenze e Napoli”, scrivono nel loro primo comunicato, “rifiutiamo che la polizia, proprio in una scuola così simbolica come la nostra, possa venire a fare lezione, come se niente fosse”.

In un paese normale, questa sarebbe una reazione quantomeno prevedibile, che darebbe vita a una normale dialettica democratica. Certo, in un paese normale non sarebbe esistita nemmeno la notte della Diaz, ma in qualunque caso oggi, con quella ferita nella propria storia, le istituzioni dovrebbero ricevere qualsiasi protesta pacifica e argomentata per quello che è, e con il dovuto rispetto. Così dovrebbe essere. La dirigenza scolastica fa una proposta divisiva, e la popolazione studentesca oppone il suo prevedibile dissenso; un dissenso che per inciso – visti appunto i fatti di Pisa, Firenze e Napoli – sarebbe lecito anche se non si trattasse di quella scuola. Tanto più che non stiamo parlando di azioni violente, e neanche di poliziotti a cui sia stato fisicamente impedito di entrare o di parlare. Il casus belli qui è un semplice striscione affisso ai cancelli, che dice “Fuori la polizia dalla Diaz”. Tutto qui. Ma basta per una serie di reazioni scomposte da parte dell’opinione pubblica.

Il deputato leghista Francesco Bruzzone, poi, dichiara la solita acritica solidarietà alle forze dell’ordine, come se uno striscione potesse fare del male quanto un manganello; dopodiché offende gravemente studentesse e studenti, accusandoli di essere nientemeno che “nostalgici degli anni di piombo”.

Nel 2001 in Italia si è vista “la più grave sospensione dei diritti democratici in un Paese occidentale dopo la Seconda guerra mondiale”, come da definizione di Amnesty International; e questo vuol dire molte cose. Vuol dire, per esempio, che quello della scuola Diaz non è stato solo un episodio, ma una pagina di storia da ricordare e da studiare a fondo nei decenni che verranno, perché ci racconta ancora oggi che cosa siamo. Non è accaduto altrove, e ci sono voluti anni per togliere dagli occhi dell’opinione pubblica il fumo denigratorio che negava le responsabilità enormi delle istituzioni. Ci sono voluti anni, ma anche istituzioni internazionali come appunto la Corte di Strasburgo o Amnesty International. In Italia, invece, anche una colpa conclamata può essere ancora negata, al punto che alcune persone – e alcuni politicanti – tornano ad affannarsi goffamente per denigrare chi esercita il proprio inviolabile diritto alla memoria dei fatti.

In questo paese è possibile avere generali delle forze armate che continuamente in prima serata in tv e sulle prime pagine dei giornali si lamentano di non poter esprimere le proprie idee violente e divisive; è possibile assistere a cariche insensate della polizia contro ragazzini delle medie che finiscono in pediatria con la testa rotta; ma a quanto pare non è possibile esprimere una posizione netta, ancorché non offensiva, con uno striscione senza essere definiti nientemeno che nostalgici del terrorismo.

Il collettivo studentesco è formato da ragazze e ragazzi che stanno cercando di vivere in un presente, quello sì, violento e preoccupante, fatto di guerre, ingiustizie e incertezze. Sono persone che, in episodi come questo, sembrano a volte più adulte e preparate di chi occupa sedie nelle istituzioni. Non hanno bisogno di appelli paternalistici al silenzio e allo studio, meritano semmai che venga loro riconosciuto il diritto di ricordare che il luogo in cui crescono è stato uno spartiacque nella storia del nostro paese.Sono persone consapevoli, anche, di frequentare una scuola che oggi è intitolata a Sandro Pertini, partigiano che un regime ripudiato dalla nostra Costituzione ha incarcerato per le sue idee, diventato poi un presidente tra i migliori della nostra Repubblica: “Onorare il suo nome e il suo operato riteniamo sia una responsabilità importante da non trascurare”, dicono i ragazzi e le ragazze del liceo Pertini, già Diaz, in un loro comunicato, insegnando civiltà e consapevolezza politica a un paese che avrebbe il compito di occuparsi del loro futuro e della loro istruzione.

 

Antonio Paolacci e Paola Ronco