Quando il 17 febbraio 2021 l’agente penitenziario Umberto Paolillo, 56 anni, si è presentato alla portineria del carcere di Bari per chiedere l’arma di servizio, gli hanno detto di aspettare. Dalla portineria hanno chiamato un superiore per segnalargli la cosa, non era mai successo che Paolillo facesse questa richiesta fuori servizio. Il superiore ha detto che non c’erano problemi e così l’arma è stata consegnata. Poche ore dopo il corpo di Paolillo è stato trovato senza vita a bordo della sua auto. Si era ucciso con un colpo alla testa.
Paolillo diceva di essere vittima di bullismo da parte dei suoi colleghi a causa di suoi presunti problemi psichici. Aveva ricevuto sanzioni disciplinari per alcuni problemi sul lavoro. “Il carcere lo aveva stancato psicologicamente”, ha scritto Laura Lieggi, avvocata che ha seguito il caso. Oggi c’è ancora un fascicolo aperto sulla sua morte per istigazione al suicidio e la famiglia non ha mai smesso di ripetere che l’agente è stato abbandonato dalle istituzioni. Quella di Paolillo, però, non è una storia isolata.
Il corpo di polizia penitenziaria ha il tasso più alto di suicidi in Italia tra le forze dell’ordine: dal 2011 al 2022 si sono tolti la vita 78 agenti. La letteratura scientifica sull’argomento è molto poca, c’è una certa ritrosia ad affrontare il tema dei disturbi mentali nei corpi di polizia. Secondo alcune indagini, i carichi di lavoro eccessivi, le paghe basse, la poca formazione, lo scarso riconoscimento da parte dei superiori e la costante gestione di eventi critici contribuiscono a un alto tasso di burnout tra gli agenti. Di sicuro c’è che tutto questo poi si riflette sui detenuti. Vittime delle pessime condizioni strutturali delle carceri e dello stress di chi li ha in custodia.
Gli eventi critici – In Italia gli agenti di polizia penitenziaria sono 31.546. Come sottolinea l’associazione Antigone, “manca il 15 per cento delle unità previste in pianta organica” e il rapporto detenuti-agenti è pari a 1,8, “a fronte di una previsione di 1,5”. Lo stipendio medio di un agente è di circa 1.300 euro al mese, le ore di straordinario possono arrivare a settanta a settimana e a essere sacrificato a volte è anche il giorno di riposo.
Il contesto in cui si trovano a lavorare gli agenti penitenziari è complesso. Oggi in Italia ci sono poco più di 60mila detenuti, ma i posti disponibili sono circa 47mila. Nelle celle visitate dall’associazione Antigone nel 2023 nel 35 per cento dei casi non era rispettata la regola dei tre metri quadri a persona. Nel 45 per cento delle docce non c’era l’acqua calda e in una struttura su otto non c’era nemmeno il riscaldamento. In molti istituti le attività trattamentali sono ridotte all’osso perché mancano gli educatori e il resto del personale. Le giornate passano senza fare nulla, e la noia presto diventa disperazione. L’Italia è stata più volte condannata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) per i trattamenti inumani e degradanti che riserva ai suoi detenuti. Come ha scritto Carmelo Musumeci, che in cella ci ha passato parecchi anni, “il carcere è l’inferno in terra”. E questo inferno plasma le esistenze e i comportamenti della sua popolazione.
Oggi nelle carceri italiane il 10 per cento dei detenuti ha problemi psichiatrici gravi e circa uno su tre fa uso di antipsicotici o antidepressivi. Gli ultimi dati disponibili del 2021 parlano di circa 33mila eventi critici segnalati negli istituti: suicidi, atti di autolesionismo e aggressioni che mettono a repentaglio la sicurezza delle persone detenute, del personale o la sicurezza all’interno della prigione. Nel 2024 finora ci sono già stati 28 suicidi tra i detenuti (1 suicidio avvenuto nel CPR di Roma), nel 2023 erano stati 69. Secondo l’associazione Antigone l’anno scorso ogni cento detenuti ci sono stati circa sedici atti di autolesionismo e due tentati suicidi.
Come scrive in un’indagine sulla polizia penitenziaria lombarda del 2022 Roberto Cornelli, professore di criminologia all’Università degli studi di Milano, in carcere ci sono emergenze che “potenzialmente sono sempre in agguato, inducendo gli agenti a vivere la quotidianità nella consapevolezza che qualcosa di grave possa succedere da un momento all’altro”. Un inferno per chi ci vive, cioè i detenuti, e anche per chi ci lavora. Secondo i dati del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), nel 2023 sono state registrate 1.612 aggressioni di detenuti agenti della penitenziaria. Antigone ha calcolato una media di 2,3 aggressioni ogni cento detenuti.
“Quando attacchiamo il turno è come andare in un campo di battaglia”. Anna F., che preferisce non rivelare per intero il suo nome, ha 61 anni, presto andrà in pensione e di istituti penitenziari ne ha visti molti. In ognuno ha trovato un elemento comune: si sa quando comincia il turno, ma non quando finisce, perché ogni emergenza cambia le carte in tavola. “Ci sono giornate in cui nello stesso momento bisogna gestire un tentativo di suicidio, un atto di autolesionismo, un principio di rivolta, un’aggressione. Sono situazioni lavorativamente e psicologicamente molto pesanti, è come stare in guerra”, ammette.
Quando mi capita di girare tra le celle d’isolamento dell’istituto in cui lavoro mi vengono i brividi – L’agente è critica verso il carcere così per com’è concepito oggi in Italia. “Vediamo tutti i giorni le disfunzioni che ci sono negli istituti. È un luogo di sofferenza in cui ai detenuti sono negate molte cose”, spiega. “Quando mi capita di girare tra le celle d’isolamento dell’istituto in cui lavoro mi vengono i brividi. Ci sono escrementi sui muri, c’è sangue, è qualcosa di inimmaginabile e raccapricciante. Tortura è anche tenere un detenuto in condizioni del genere”. Gli eventi critici che caratterizzano la quotidianità nelle prigioni italiane sono anche conseguenza di questa situazione. “Mi è capitato di dire ai detenuti che io per prima non sarei una brava reclusa”, continua l’agente. “Le violenze ce le dobbiamo aspettare, finiamo per accettarle se questo è il contesto in cui i detenuti si trovano a vivere. Le prigioni in questo stato sono un problema per tutti, per chi ci vive e di conseguenza per chi ci lavora”.
La comunicazione è un tema critico nelle carceri. Gli agenti che lavorano nei reparti, quei sottoposti che sono alla base della scala gerarchica della polizia penitenziaria, spesso faticano a parlare con i vertici, a fargli arrivare segnalazioni e reclami. La letteratura scientifica la chiama “distanza relazionale” e il risultato per molti agenti è un senso di spaesamento, causato anche dai continui conflitti tra direzione del carcere e comando di polizia sulle decisioni da prendere.
Un contesto così complesso necessiterebbe poi di una profonda formazione del personale, che al momento non è sufficiente. Secondo l’indagine di Cornelli sulla polizia penitenziaria lombarda, quasi il 62 per cento del personale chiede più formazione per gestire eventi critici e persone problematiche. Il 56 per cento si sente impreparato ad affrontare una rivolta nell’istituto in cui lavora e più di un agente su tre dice di non sapere come gestire una rissa tra detenuti o un’aggressione a un collega.
Il burnout negli agenti – Nel 2018 il sindacato Uilpa ha diffuso i risultati di uno studio sullo “stress lavoro correlato nel personale della polizia penitenziaria”. Secondo la ricerca, più di un terzo degli agenti ha sofferto di sintomi di depressione, ansia, alterazione delle capacità sociali e diversi disturbi somatici. I fattori che causano stress sono stati identificati nell’alto carico di lavoro, nel mancato sostegno da parte dei dirigenti di polizia e della direzione, nella scarsa formazione ricevuta per gestire gli eventi critici e nelle condizioni fatiscenti delle strutture in cui si lavora. Strutture che poi sono le stesse in cui, spesso, molti vivono. Molti degli agenti dormono infatti nella foresteria, un edificio all’interno del complesso penitenziario. “Io ho una stanzetta tipo quelle degli ospedali, con un letto, un armadio, un tavolino e un bagno”, spiega l’agente Anna F. “Per cucinarci abbiamo un fornelletto oppure possiamo mangiare alla mensa interna. Vivere nella foresteria è una soluzione economica e anche comoda, visto che in caso d’emergenza dobbiamo sempre essere pronti. Certo però significa restare sempre nell’ambiente lavorativo, che poi è un carcere”.
Nel 2019 nel carcere di Montorio, a Verona, ha aperto il primo sportello italiano di sostegno psicologico per gli agenti in servizio nell’istituto. Poi ne sono arrivati altri a Varese, Bari e Civitavecchia. In tutti si è registrata una scarsa affluenza del personale penitenziario. L’ex ministra della giustizia, Marta Cartabia, a inizio 2022 aveva richiesto di destinare risorse a progetti di aiuto psicologico degli agenti della penitenziaria. Un’iniziativa definita “offensiva” da alcuni sindacati di polizia e che è rimasta perlopiù lettera morta, nonostante lo stanziamento di un fondo da un milione di euro. “Anche dopo il diretto coinvolgimento in un evento critico come il suicidio o il tentato suicidio di un detenuto, una buona parte degli agenti minimizza o nega un eventuale impatto sulla propria salute mentale”, sottolinea il Cornelli. “Sembra che l’atteggiamento della maggioranza di loro sia quello di evitare di mostrarsi fragili di fronte a eventi critici. Richiedere un aiuto psicologico potrebbe creare uno stigma”.
In Italia, a parte le indagini sul burnout degli stessi sindacati che respingono le iniziative di supporto psicologico e che strumentalizzano la questione per chiedere nuove assunzioni, non c’è molto altro. Mancano anche studi approfonditi sull’eventuale correlazione tra il burnout e il fatto che il corpo di polizia penitenziaria abbia il tasso più alto di suicidi tra le forze dell’ordine, conuna media di 7,4 persone all’anno, secondo una ricerca che ha analizzato i dati tra il 2008 e il 2017. L’ultimo caso si è verificato il 5 marzo in provincia di Avellino, quando un agente penitenziario del carcere di Ariano Irpino si è tolto la vita. Il terzo suicidio di questo tipo dall’inizio del 2024. Tutto questo ha chiaramente conseguenze sulla vita dei detenuti.
Sempre più ragazzi dentro, sempre più indifferenza fuori – “Nel corso della mia detenzione mi è capitato più volte di vedere scene di ispettori che trattavano i loro sottoposti peggio di un cane. Questa frustrazione poi devono sfogarla in qualche modo. E a rimetterci siamo sempre noi detenuti”. Fernando G., 44 anni, è in regime di semilibertà ed è convinto che gran parte dei problemi nel corpo di polizia penitenziaria derivino dalla sua struttura verticistica e dalle direttive imposte dall’alto da chi non vive in stretto contatto con i detenuti e impone un approccio securitario, basato sulla mortificazione del condannato più che sulla rieducazione. Un ruolo lo gioca anche il degrado strutturale e culturale delle prigioni. “Il carcere oggi si basa su una pena di tipo psicologico, che ha conseguenze sulla mente prima ancora che sul fisico”, sottolinea Emanuel H. F., 33 anni, detenuto autorizzato al lavoro all’esterno. “Questo vale per i reclusi, ma si riflette anche sulla condizione degli agenti penitenziari e in particolare dei sottoposti, quelli che stanno in reparto con noi”.
Qualcuno resiste pochi mesi in queste condizioni e decide di cambiare lavoro, altri si adeguano. C’è chi si ammala, chi si sfoga con la violenza. L’articolo 41 della legge sull’ordinamento penitenziario riconosce agli agenti della penitenziaria una sorta di discrezionalità nell’uso della forza, stabilendo che può essere impiegata per prevenire o impedire atti di violenza, per impedire tentativi di evasione e per vincere la resistenza, anche passiva dei detenuti contro gli ordini.
“In che situazione usare la forza diventa una scelta soggettiva, su cui incidono fattori come la frustrazione, la sensazione di abbandono istituzionale e lo spaesamento provocato dalla mancata formazione sulla gestione degli eventi critici”, spiega ancora Cornelli. Non tutto però va ridotto all’emotività e anzi, i gesti violenti sono spesso di origine culturale, il risultato di una strategia di controllo sociale per ristabilire l’ordine. “Un ordine diverso da carcere a carcere, perfino da reparto a reparto, e che può essere anche molto lontano da ciò che l’ordinamento giuridico indica. Soprattutto se chi deve chi le carceri in modo democratico e costituzionale cede alla logica della sottomissione violenta come unica modalità di relazione con le persone rinchiuse”, continua Cornelli.
Da quando nel 2017 in Italia c’è una legge sulla tortura sono già stati condannati agenti della penitenziaria, come a Ferrara, San Gimignano e a Bari. Centinaia di poliziotti coinvolti nelle presunte violenze denunciate negli istituti di Santa Maria Capua Vetere, Torino, Cuneo e molti altri sono sotto processo o indagine per tortura. Però la presidente del consiglio Giorgia Meloni ha chiesto l’abolizione del reato di tortura, “perché impedisce agli agenti di fare il proprio lavoro”.
“Il peggioramento delle condizioni di lavoro degli agenti incide sulla vita dei detenuti, che peggiorando peggiora il lavoro degli agenti: è una spirale continua”, sottolinea Cornelli. “Nonostante questo, oggi i discorsi che vanno per la maggiore anche tra chi difende le forze dell’ordine continuano a essere sempre gli stessi: far marcire i detenuti in carcere, buttare via le chiave, ignorare i diritti violati. Ma a uscirne sconfitti così sono tutti”.
Lo scorso autunno a un detenuto del carcere di Salerno è stato permesso di vedere per qualche minuto il suo cane nell’area verde dell’istituto. Il sindacato di polizia ha polemizzato con la direzione, sottolineando che le priorità del sistema penitenziario dovrebbero essere altre. L’ennesima sottovalutazione del diritto all’affettività per i detenuti, un tema su cui a fine gennaio si è pronunciata anche la corte costituzionale, evidenziando la necessità di una legge sul tema. “Si vuole creare un solco tra il lavoro degli agenti penitenziari e le condizioni di vita dei detenuti”, conclude Cornelli. “La realtà è che il benessere degli agenti di polizia penitenziaria è strettamente correlato a quello dei detenuti. Un miglioramento dello stato delle carceri italiane dovrebbe essere nell’interesse di tutti”. |