L’invito a parlare davanti a un gruppo di sinistra a Roma dei rapporti italo-albanesi mi ha emozionato oltre misura. L’entusiasmo mi ha tenuto inebriato fino al giorno in cui avrei dovuto sfidare l’ansia che mi prende davanti ai confini, le autorità, i controlli, le attese in fila, lo sguardo inquisitorio del poliziotto di frontiera, il pigro parlare nella sua lingua, la verifica tendenziosa del passaporto e la fatica di arrivare all’aeroporto: preoccuparmi se il taxi mi porterà lì in tempo, se ho abbastanza soldi per il grande mondo là fuori, se non ho dimenticato nulla, ecc.
Tolti questi piccoli inconvenienti, il confine mi opprime spiritualmente anche con le immagini che mi passano davanti. Dalla vista lacerata di Kruja [piccola cittadina albanese, ndt] sotto la nebbia delle cave e delle fornaci di calce, ai brividi di vecchie donne radicate nella malinconia del sottosuolo che si trovano davanti all’idea di ascendere al cielo, volando lì dove le creature angeliche di Michelangelo vivono e sperano in un riscatto. Vedo giovani in tuta e volti imbruttiti; ex-profughi nostalgici che si trascinano dietro i figli, senza nostalgia e con un albanese cantante; un nuovo tipo di umanità che negli aeroporti vive tanto liberamente quanto un provinciale coi giorni bruciati nel bar di quartiere. Sento la sordità e l’emicrania che mi procura il volo aereo e, soprattutto, vedo i fumi di una metafisica violenta sopra i luoghi in cui andrò.
Per fortuna, il biglietto numero 18F indicava che mi era stato assegnato un posto vicino al finestrino e il volo sull’Adriatico mi ha bruciato il cervello in un’estasi sfrenata, sperimentando allo stesso tempo il fremito delle ali cerose di Dedalo, le navi pirate illiriche nell’azzurro smeraldo del mare antico, un verso dall’Infinito di Giacomo Leopardi per proseguire con sentimenti campestri alla Ugo Foscolo e poi con la città eterna.
Roma appare incantata dall’alto senz’aria, la Roma di Ovidio, la Roma dei fratelli Gracchi, la Roma dei tronfi lumpen di Pasolini, la Roma di Jep Gambardella, la Roma di una breve visita di dieci anni fa, quando vidi per la prima volta le vecchie rovine e sentii tremare le ginocchia, la Roma di una poesia incompiuta per i fratelli perduti nella notte
Atterrare all’aeroporto di Fiumicino mi fa rivivere quella vecchia ansia, soprattutto quando noto che i doganieri ci classificano in base ai passaporti: quelli dell’UE da un lato, gli angloamericani dall’altro e, a parte, il branco di albanesi, arabi, asiatici insieme, insieme e frettolosamente, insieme e pazienti, insieme e ammassati. Altre guardie di frontiera dividono poi la mandria in gruppi, secondo il rispettivo sportello, qua e là. Mi portarono al bancone numero 19, dove un giovane ragazzo stizzoso, astioso, poco più che ventenne, disteso comodo dietro il vetro, tormentava con molte domande due donne albanesi e un giovane, che osservai con attenzione mentre arrossiva, si scuriva, diventava giallo e raccontava cose tutto il tempo. Dopo di loro, io. «Dove stai andando?» «A Roma». «Per quanto?» «Per due giorni». «Dove?» «Da una mia amica». «Per cosa?» «Per un incontro sull’ecologia». «Dove sono i tuoi biglietti?» «Qui, nel telef…» «Vieni, vieni dietro di me!» Lo seguo sotto lo sguardo a disagio di una folla di albanesi, cercando di tirar su un sorriso artificiale per quello che potrebbe essere solo un piccolo malinteso.
Ma il sorriso è svanito presto, nessuno se ne curava. All’ufficio della polizia di frontiera trovo una giovane famiglia ispanica le cui valigie vengono disfatte per un’ispezione approfondita. Il ragazzetto vestito da gendarme mi consegna un modulo con domande su chi ero, cosa facevo, cosa volevo lì, che relazioni avevo lì, quanti soldi avevo, dove andavo a dormire, se avevo parenti o qualche lettera di garanzia delle persone che volevo incontrare, tredici domande a cui ho risposto velocemente, sotto la sua presenza tossica. Dopo che ho finito, tira fuori il modulo e mi dice: «hai solo cinque minuti per mostrarmi la prenotazione dell’hotel, il biglietto di ritorno e la carta di credito, altrimenti vai via». Mi siedo e comunico al telefono con la persona che mi ospita. Mi fornisce l’indirizzo dell’appartamento dove alloggerò e trovo nella mail il biglietto di andata e ritorno, ma neanche cinque minuti e lui ricompare gongolante accanto a un poliziotto sulla cinquantina, un tipaccio rude dai capelli rossi. Mentre mostravo loro il biglietto di ritorno insieme con l’indirizzo di alloggio, quasi sotto il mio naso, orgogliosi come avessero intrappolato una preda, mi trattano con paternalismo in una posa sprezzante e mi deridono con discorsi dialettali. «No, non bastano, serve la prenotazione su Booking, verrai rimandato indietro». «Ecco, per favore, potete parlare al telefono con chi mi ospita», dico. «No, parlo solo con te e tu vai via», ha detto e fischiettato, tornando dopo pochi istanti con un documento comprovante che non soddisfo le condizioni di soggiorno e invitandomi a firmarlo. Mi rifiuto e gli dico che non è vero che non soddisfo le condizioni. Mi dice «ok» e nervosamente, con un gesto che si potrebbe tradurre con “ti faccio vedere io”, sparisce al galoppo. «Questo è razzismo», gli dico ad alta voce, in inglese, che ha fatto sì che l’ispanico, fino a quel momento assonnato e quasi invisibile, si mordesse il labbro e mi dicesse di abbassare la voce per non finire peggio, consiglio di un rifugiato rodato che aveva le sue ragioni.
Dieci minuti dopo mi si presenta una poliziotta che mi ordina di seguirla e vedo che mi ha condotto allo sportello dei ritorni. «Per dove?» – Le chiedo. «Per Tirana», mi dice. «Non tornerò a Tirana», le dico, «questo è ingiusto». «Vuoi andare dalla polizia?» – mi minaccia. «Sì», dico, «ci vado». «Sei sicuro?» «Sicuro». «Bene, seguimi!» Raggiungiamo l’ufficio dove si trovava il capo, un uomo di mezza età calvo e scontroso. La poliziotta gli dice che mi sono rifiutato di passare e lui mi risponde con rabbia. Ho le carte in regola, anticipo, mi fermerò solo due giorni, non so perché mi sta succedendo questo. «Tu te ne ritorni», mi sgridò. «Ascoltami», dico. «Te ne vai». «Ascoltami per favore». «Te ne vai». «No, non me ne vado». «Te ne vai». «No, non me ne vado». «Te ne vai». «No, non me ne vado». E la situazione divenne così tesa che se non fosse intervenuta una signora per calmare il sangue, il signore avrebbe ovviamente perso le staffe. La poliziotta mi ha affidato a un poliziotto e mi ha accompagnato alla stazione di polizia dell’aeroporto.
Lì trovo una stazione di polizia tipica come in Albania, sporca e con due poliziotti annoiati, e sembrava sottoterra perché non c’era luce. Mi prendono il telefono con la forza. Sulle panche del corridoio, da una cella vicina, sedevano come statue due giovani iraniani, probabilmente marito e moglie.
Ci salutiamo, gli dico che mi piace la poesia iraniana, il giovane ride, gli dico che mi piace anche il cinema iraniano, ma lui, evidentemente demoralizzato, non continua la conversazione. Le due guardie mi fanno cenno e mi invitano a entrare in una cella stretta, con un vetro grande quanto mezza parete che dà sul corridoio. Poi uno di loro indossa i guanti neri. «Toglitele!» «Che cosa?» «Le scarpe». Le tolgo e loro mi prendono i lacci. «Togliti il maglione», mi dicono. Mi tolgo anche il maglione. «Togliti i pantaloni!» Me li tolgo e loro mi prendono la cintura. «Toglitele!» «Cosa devo togliere ancora?» «Le mutande!» «Le mutande?!» «No, non le tolgo». «Toglile! «No, non le tolgo». «Toglile!» «No, non le tolgo». «Toglile!» «No, non le tolgo». «Siamo uomini», dicono, «toglitele!» «No, gli dico», non me le tolgo, convinto che se mi togliessi le mutande il livello di controllo sarebbe andato ancora più il là, con strizzate di testicoli e, sia mai, dita nel culo. Se vuoi controlla con le mani, dico, ma non mi tolgo le mutande, qualunque cosa accada. Non mi toccano, mi aprono solo la bocca per controllare i denti inferiori e superiori, poi le scarpe, le ascelle e le dita dei piedi. E se ne vanno, chiudendo la porta dall’esterno e lasciandomi quasi nudo, sotto l’occhio di una telecamera di sorveglianza sul soffitto.
Nella cella due lettini tipo sdraio da spiaggia e assolutamente nient’altro. Mi metto a leggere che si scriveva su quei muri vandalizzati e, a parte i geroglifici arabi, una battuta e un insulto in inglese, il resto erano tutti scarabocchi albanesi come “Devi Shkodër”, “Mirjet Hoxha Kala e Dodës”, “Romario da Librazhdi” , “Mama cuore Papà, “Has il fico”, “Kukësi”, un’aquila disegnata malissimo, poi due mani giunte a forma del nostro simbolo nazionale con alcune parole illeggibili. Ho cercato nelle vicinanze e ho trovato un bottone per i lacci della tuta e ho scritto anche il mio nome: “Klodi Leka, 30.5.2024”. Mi siedo sullo sdraio e, pensando a Devin, Mirjeti, Romario da Librazhdi, a tutti quegli albanesi senza lingua e senza soldi che hanno dormito davanti a me su quello sdraio, mi addormento. All’improvviso mi sveglio dai movimenti potenti e mi avvicino alla finestra dove vedo che nel corridoio, sotto il vetro della mia cella, era seduta una giovane donna di colore, dal cui telefono noto che erano passate due ore. Piangeva a dirotto e si stancava a parlare nella sua lingua con i poliziotti che, oltre a non capire nulla, sghignazzavano. Suo marito, un nero molto bello, aveva, per quanto ne sapevo, subito una perquisizione approfondita e ora veniva scortato nella sua cella. L’uomo si sentì così umiliato che non osò guardare la compagna nemmeno quando lo sbatterono nella cella accanto alla mia. A questo probabilmente hanno tolto le mutande, ho pensato mio malgrado, mentre l’albanese era stato probabilmente tollerato in quanto un gradino sopra di loro, i neri della cucina, nella gerarchia del razzismo italiano. La donna nera si voltò verso di me, io le sorrisi di cuore, ma le sue lacrime non si fermarono: scorrevano una dopo l’altra, stremate, grandi, morbide, senza voce e senza lamento, come un fiume, che mi ha ricordato la canzone Cry me a river di Ella Fitzgerald.
In ogni caso, quello che più mi ha sorpreso è che oltre ad essere trattato come un terrorista, o come dice Giorgio Agamben come un Homo Sacer, come una persona sporca e senza diritti, non hanno perquisito il mio zaino, ma semplicemente lo hanno preso e chiuso in un piccolo armadietto di fronte a me. La logica vorrebbe che il primo oggetto di ispezione sia la borsa, luogo dove c’è un po’ più di spazio del buco del culo o dei testicoli per nascondere cose illegali. Ho osservato tutto occhi e orecchie, ma non è stata perquisita nemmeno più tardi, nelle nove ore di attesa in quello spazio tetro e spoglio, dove nessuno mi ha informato del motivo per cui ero detenuto in privazione della libertà e sotto sorveglianza, né mi è stato chiesto se volessi consumare il diritto alla telefonata, all’acqua, al cibo, alle medicine, né come mi chiamavo, né se fossi turbato, semplicemente e anche solo per umanità, nel quadro di due popoli, un mare, un’amicizia.
Evidentemente, non controllando la borsa, ho capito che non erano interessati a trovare nulla, ma a umiliare me, l’individuo albanese, la statistica per il respingimento alla frontiera, il test di laboratorio per i provvedimenti discrezionali, ciò che dà alla polizia la libertà di applicare una procedura molto rigorosa prendendo decisioni arbitrarie
Per nove ore ho nuotato in quello spazio vuoto congetturando senza riuscire a indovinare quale fosse la mia colpa, accusa, offesa, pensando per tutta la prima ora che non mi avrebbero trattenuto a lungo e che fosse un tempo accettabile per la verifica, nella seconda ora che mi avrebbero messo sull’aereo, nella quarta ora che mi avrebbero addossato una qualche accusa di resistenza all’applicazione della legge. Nella quinta ora ho pensato che mi avevano confuso o sospettato che fossi un’altra persona, con le congetture che alla settima ora andavano, venivano e diventavano paranoie che mi schedassero per alcuni scritti e apparizioni televisive contro le tendenze colonialiste italiane in Albania, per le quali in seguito mi sarei preso in giro senza pietà per aver esagerato il mio ruolo nella storia. All’ottava ora in punto ho cominciato a gridare, a dare calci alla porta, a far graffiare lo sdraio sul vetro, a dire loro che li avremmo battuti come facemmo nel 1920 e nel ’40, e tutto questo, ovviamente in silenzio, nella mia testa.
Verso la nona ora della presa in ostaggio, stufo marcio dell’assurdità di quell’attesa insensata, osservai i poliziotti cambiare turno e mi riappacificai con quel verso di Dante: «Lasciate ogni speranza, o voi ch’entrate». Adesso non volevo nemmeno essere liberato, anzi desideravo con un piacere perverso che ritardassero la prigionia ancora di più, ore, giorni, settimane, mesi, in quell’angolo senza luce dove il tempo e lo spazio non avevano più senso, affinché anch’io potessi esplorare quelle stanze attraverso le quali vicini, cugini, amici e albanesi di ogni tipo hanno trascorso questi trent’anni. Volevo marchiarmi con la feccia del galeotto e del criminale, per essere il cattivo albanese, il barbaro senza cittadinanza, il colonizzato, il ladro d’auto, il fratello meridionale degli anni ’70, esiliato a Ustica e, all’apice di quel sadomasochismo claustrofobico, giacevo schiumante sullo sdraio, dove caddi in un sonno dolce e pesante che, come l’idea di passare due bei giorni a Roma, non era destinato a durare.
Senza tatto, svegliandomi gridando e senza entrare nella stanza, la nuova guardia mi disse di alzarmi e prendere le mie cose. Mi restituirono i lacci, la cintura, il telefono, la borsa e così mi portarono in un ufficio all’ultimo piano dell’aeroporto. Prima ancora che mi fosse consegnato il passaporto, mi lasciarono ad aspettare in un’anticamera in compagnia desolata di due giovani africani. Chiedo al funzionario se mi rimandano in Albania, ma lui, apparentemente sorpreso, mi dice di no, che rimarrò in Italia e che mi accompagna allo sportello, ovvero al Vallo di Adriano, per aver attraversato il quale sono stato trattenuto per nove ore. E a quanto pare, come se mi facessero onore, non mi hanno nemmeno fatto passare secondo l’ordine, dritto per dritto, ma di traverso, quasi di soppiatto, rubandomi anche quel pezzo di gloria simbolica della trave che si ergeva davanti a me per entrare nel cuore del mondo civile, Imperias, Europa, così come mi toccava, come straniero che si suppone abbia acquisito la cittadinanza. Peraltro niente scuse e niente buona giornata per lavarsi la bocca.
Sono fuori, nei labirintici corridoi di un aeroporto che sembra non avere fine, e devo camminare, camminare, camminare non tanto per respirare aria di libertà, ma per fumare una sigaretta, la seconda su dieci ore di umiltà e sottomissione. Confuso, riesco a malapena a trovare la via d’uscita. Quando sono atterrato qui era giorno, adesso è buio e con la connessione internet debole dell’aeroporto, scrivo con Besi, un amico albanese, arrivato dal profondo nord italiano e che mi aspetta. Poi insieme troviamo Stefano, un compagno, italiano, che mi bacia su entrambe le guance, dispiaciuto per quello che mi è successo. Poi troviamo Margot (nom de guerre), compagna, albanese, e con lei il collettivo BERTA, che mi ha aspettato fino a dopo mezzanotte per ascoltarmi e sentirmi. Li ringrazio infinitamente per i loro sforzi per farmi uscire dalle vergognose catacombe dello Stato razzista italiano, che mi hanno dato la possibilità di raccogliere nuove esperienze su Roma e sul movimento della sinistra italiana.
Questo è tutto quello che ho sentito a Roma sotto le fanfare festose della falsa fratellanza italo-albanese, la fratellanza basata sul commercio sporco e sulle lacrime dei profughi africani, che mi ha riconfermato che, al di là delle sciocchezze politiche, noi albanesi possiamo solo essere vicini poveri e sospetti per il nuovo e il vecchio fascismo italiano. Ma l’Italia non è i suoi razzisti. Sono Stefano, Margot, Andrea, Lule, BERTA e i suoi milioni di progressisti. |