Dalla tragedia di Gaza e l’eliminazione del capo politico di Hamas, Ismail Haniyeh, allo stato dei diritti umani in Italia. Un giro di orizzonte a 360 gradi, su temi di scottante attualità, che l’Unità intraprende con Riccardo Noury, storico portavoce di Amnesty Italia, che all’impegno civile accompagna quello di autore di importanti libri sul tema.
La tragedia di Gaza sembra essere uscita dai riflettori mediatici. Eppure, la situazione è apocalittica. Una popolazione civile vive all’inferno: fame, sete, epidemie, ora anche la poliomielite. Gli aiuti umanitari utilizzati come strumento di guerra. L’aiuto umanitario è “terzo”, imparziale, indipendente. Aiuta le persone in stato di bisogno. Non dovrebbe essere mai ostacolato. In Siria, poi in Yemen, poi a Gaza e poi in Sudan è sempre la stessa storia. Qualcuno decide se gli aiuti devono arrivare e a chi, in quale quantità, secondo quali percorsi e così via. Impedire l’ingresso degli aiuti umanitari produce morti in differita, il cui macabro conteggio prosegue ben oltre i cessate-il-fuoco. Nella Striscia di Gaza, l’esercito israeliano ha ripetutamente bloccato l’ingresso degli aiuti, anche dopo che la Corte internazionale di giustizia ne aveva chiesto l’immediato e completo ripristino. Poi, abbiamo assistito al grottesco: governi che aiutano le forze armate israeliane a causare la morte dal cielo, sempre dal cielo hanno pensato bene di lanciare aiuti, provocando tra l’altro morti da trauma (persone colpite dall’atterraggio dei pacchi) o da annegamento (persone affogate nel tentativo di recuperare quelli finiti in mare). L’assistenza umanitaria non può essere improvvisata: dev’essere fornita da professionisti esperti nell’organizzazione della distribuzione e nella fornitura diretta di servizi salvavita. La fornitura di aiuti deve poi avere un volto umano: non solo per valutare in modo appropriato i bisogni delle popolazioni colpite ma anche per ripristinare speranza e dignità in una popolazione già traumatizzata e disperata. Dopo nove mesi di bombardamenti continui e di condizioni disumanizzanti, è davvero il minimo. Ma siamo in ritardo di circa 270 giorni.
Sempre a proposito di Gaza e, ormai, dintorni. Qual è il tuo giudizio sull’uccisione del capo politico di Hamas a Teheran? Per la giustizia internazionale l’uccisione di Ismail Haniyeh, indagato dalla Corte penale internazionale per i crimini di guerra e contro l’umanità commessi il 7 ottobre 2023 nei confronti dei civili israeliani e che, per tali crimini, avrebbe potuto essere processato e condannato, è una sconfitta. Chi invece la giustizia internazionale la ostacola in ogni modo quando le chiede di rendere conto dei suoi crimini, sceglie altre soluzioni. La cosa assurda è che tutto il mondo supplica, perché solo questo gli è rimasto – supplicare – che non ci sia un’escalation, poi quando si verificano atti che quell’escalation rischiano di provocarla si rimane muti o ci si trincera dietro il “non ne sapevamo nulla”.
Quando si parla di violazione dei diritti umani, si pensa, e spesso fa comodo pensarlo, che ciò riguardi gli altri, i paesi retti da regimi liberticidi, autocratici etc. Ma anche sull’Italia c’è molto da dire. Proviamoci. Fino alla fine dello scorso secolo era frequente, negli incontri istituzionali che Amnesty International sollecitava, sentirsi dire che i diritti umani erano certamente un tema rilevante e bisognava occuparsene, ma che dovevano essere oggetto della nostra politica estera perché venivano violati oltre frontiera. Ci ha pensato il G8 di Genova del 2001 a riportarli dentro le nostre frontiere (peraltro, venivano violati anche prima). Dovendo fare una sintesi, ci sono leggi che violano i diritti umani: penso a tutta la legislazione e la decretazione in tema di immigrazione e asilo, che si estende alla criminalizzazione della solidarietà, o alle recenti norme che si accaniscono contro i promotori della giustizia climatica, così come alle proposte – alcune assai pericolose e inumane – che a settembre potranno essere approvate nel cosiddetto “ddl sicurezza”. Invece, le leggi che dovrebbero tutelare i diritti umani in molti casi mancano: norme sulla cittadinanza che diano dignità e attualità a quella parola o che pongano fine alla discriminazione nei confronti delle coppie omosessuali, tutele per i gruppi vulnerabili che subiscono crimini d’odio, una modifica all’articolo del codice penale sul reato di stupro, che dovrebbe essere riformulato – come ha fatto mezz’ Europa – sul principio del consenso. Manca un’istituzione nazionale indipendente di monitoraggio sui diritti umani e non siamo in grado di poter celebrare processi per crimini contro l’umanità nei confronti di presunti responsabili che dovessero trovarsi nel nostro paese. In mezzo, ci sono una legge di cui si tende a non garantire la piena attuazione, come la 194 sull’aborto, e una legge all’avanguardia quando venne approvata, la 195 del 1990, sul commercio di armi, che verrà peggiorata. Per non parlare del reato di tortura.
Appunto. Amnesty è stata in prima fila nel battersi perché nel codice penale italiano fosse inserito il reato di tortura. Dovrebbe essere naturale per una democrazia liberale. Invece? Invece, ci sono voluti quasi 30 anni e una sentenza della Corte europea dei diritti umani perché, nel luglio 2017, entrasse nel codice penale. Chi all’epoca dall’opposizione tentò di fermarne l’istituzione ora è al governo e ha a più riprese annunciato l’intenzione di modificarlo (traduzione: annacquarlo). Se dall’intenzione si passasse ai fatti, le indagini – oltre dieci – e i processi in corso si fermerebbero. Sarebbe la conferma che trasparenza e assunzione di responsabilità non fanno pienamente parte della cultura dei diritti umani di questo paese. Prova ulteriore ne sia l’ostinazione con cui anche, e sottolineo anche, questo governo rifiuta di prendere in considerazione le richieste di introdurre i codici alfanumerici identificativi per le forze di polizia in servizio di ordine pubblico, oggetto negli anni di numerose proposte parlamentari e di una campagna lanciata da Amnesty International nel 2011, decimo anniversario dei fatti senza precedenti del G8 di Genova.
L’Unità ha nel suo Dna il garantismo. Questo vale per i bimbi costretti in carcere perché in carcere sono le loro madri, a politici e amministratori contro cui è palese l’accanimento. Pretendere uguali garanzie per tutte e per tutti è una posizione nobile. Per un organo d’informazione, che ha una sua linea editoriale, potrà essere a volte scomodo ma non è in fondo difficile. Il rispetto delle garanzie serve ai diritti umani. Quello che li danneggia è il garantismo selettivo, strabico o dei doppi standard. Quello per cui quella di Assange è stata una causa nobile, quella di Navalny no o viceversa. Quello per cui la giustizia internazionale torna buona quando punisce i nemici ed evita di prendersela con gli amici. Quello per cui l’Italia è stata la meravigliosa protagonista di una campagna straordinaria e vincente per uno studente egiziano dell’università di Bologna ma continua a non fare nulla per un ricercatore con passaporto svedese dell’università di Novara che da sei anni langue, in attesa dell’esecuzione, in una prigione del suo paese di origine, l’Iran: il suo nome è Ahmadreza Djalali. Chi ne ha sentito parlare?
Nel Mediterraneo si continua a morire. C’è stato l’importante pronunciamento del tribunale sulla tragedia di Cutro. Ma la politica sembra fregarsene. Mi auguro che ciò che deriverà dalla chiusura delle indagini, con le ipotesi di reato di naufragio colposo e omicidio colposo plurimo a carico di quattro finanzieri e due militari della Guardia costiera, contribuirà a stabilire la verità e a dare un minimo senso di giustizia ai familiari delle persone morte e a quelle sopravvissute. Cutro è, sì, sinonimo di quella spaventosa tragedia della notte del 26 febbraio 2023. Ma lo è anche della decretazione che da lì ha preso il nome, con l’annuncio, da parte del governo, di una “caccia agli scafisti in tutto il globo terracqueo”. Ne è derivata quella che chiamerei un’ansia performativa di portare a casa risultati, rafforzando l’obiettivo che era già implicito nell’articolo 12 del Testo unico sull’immigrazione del 1998. Un’ansia performativa che ha portato all’arresto, al termine di due distinti approdi della fine del 2023, di un’artista e attivista curda iraniana e una madre, a sua volta iraniana, che viaggiava col figlio di otto anni. Si chiamano Maysoon Majidi e Marjan Jamali. Chiedevano protezione in Italia, hanno trovato le manette. Dopo essere approdate in Calabria, Maysoon e Marjan sono state infatti sottoposte a provvedimenti di custodia cautelare in quanto accusate di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare e, in particolare, di essere “scafiste”. Marjan si trova oggi agli arresti domiciliari, mentre Maysoon è in carcere. I loro processi vanno avanti e le prossime udienze sono previste tra due/tre mesi. Maysoon è in una condizione di gravissima depressione e debilitazione. Pesa attualmente meno di 40 chili e le è stata rifiutata la visita di una psicologa da lei indicata. L’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare nei confronti delle due donne è stata avanzata sulla base di testimonianze di persone che avevano effettuato l’ultimo tratto di viaggio in barca insieme a loro, che avevano segnalato la partecipazione di Maysoon alla distribuzione di cibo e acqua a bordo; mentre le accuse riguardanti Marjan provenivano dagli stessi uomini che, nel racconto della donna, avrebbero tentato di violentarla. Tali testimoni sono stati interrogati nei concitati momenti dopo l’approdo, ma non è stato possibile un controesame delle loro affermazioni perché sono scomparsi poco dopo lo sbarco. Le loro testimonianze sono state smentite, in interviste giornalistiche, ma quando ormai erano all’estero.
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