È quanto emerge da un annuncio di Nicola Molteni, Sottosegretario all’Interno dell’esecutivo Meloni, che, mentre prosegue l’esame nelle commissioni Affari Costituzionali e Giustizia della Camera sul ddl sicurezza, ha espressamente parlato dei codici identificativi come di strumenti «pericolosi e dannosi» che vanno «contro le forze di polizia». L’Italia volta così le spalle alle numerose raccomandazioni pervenute da UE e ONU, che da tempo chiedono al nostro Paese di introdurre il codice identificativo per gli agenti, adeguandosi a quanto è già previsto in quasi tutti i Paesi europei.
«Ci sarà un emendamento del governo e della maggioranza per prevedere le bodycam sulle divise, a tutela degli operatori delle forze di polizia che mai si sottraggono e si sono sottratte a verità e trasparenza. I codici identificativi sono strumenti contro le forze di polizia». Sono queste le parole con cui il Sottosegretario all’Interno Nicola Molteni ha manifestato il parere del governo in merito all’ipotesi dell’introduzione di bodycam e codici identificativi, di cui si sta discutendo in sede parlamentare. Se l’esecutivo, almeno a parole, appare dunque propenso a dire sì all’utilizzo di dispositivi posti sulle divise delle forze dell’ordine e preordinati a registrare audio, immagini e video, ha espresso un secco diniego alla seconda opzione.
L’introduzione del codice identificativo, tanto inviso al governo Meloni, ma presente in ben 20 Paesi UE, tra cui anche Francia, Spagna e Portogallo, è stata negli ultimi anni fortemente raccomandata all’Italia e ai pochi Stati membri che ancora ne sono sprovvisti da vari attori sovranazionali. Nel 2012, il Parlamento europeo ha approvato una risoluzione con cui ha espresso «preoccupazione per il ricorso a una forza sproporzionata da parte della polizia durante eventi pubblici e manifestazioni nell’UE», sollecitando «gli Stati membri a garantire che il personale di polizia porti un numero identificativo». Nel 2016 a dire la sua è stato il Consiglio sui diritti umani delle Nazioni Unite, raccomandando che «i funzionari delle forze di polizia siano chiaramente e individualmente identificabili, ad esempio esponendo una targhetta col nome o con un numero». In ultimo, nel dicembre 2023, è intervenuto il Consiglio d’Europa, che avendo preso atto «delle informazioni fornite dalle autorità sui progetti di legge all’esame del Parlamento volti a garantire l’identificazione degli agenti delle forze dell’ordine attraverso codici alfanumerici» ha «chiesto con forza di portare rapidamente a termine questo processo legislativo». Ciò non è evidentemente servito a convincere il governo Meloni, che sembra invece farsi più volentieri portavoce delle istanze dei sindacati di Polizia. Non a caso, il Sindacato Italiano Unitario Lavoratori Polizia (SIULP) ha plaudito al governo dopo la bocciatura dell’emendamento sul codice identificativo. Secondo la principale organizzazione di rappresentanza del personale della Polizia di Stato, infatti, «tra le donne e gli uomini in uniforme» starebbe cominciando a diffondersi «la convinzione che oltre al non rispetto del servizio reso a garanzia e tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica, qualcuno immagini anche di introdurre elementi che li intimoriscano in modo da lasciare campo liberi ai violenti e ai professionisti del disordine».
L’esecutivo italiano si trincera dunque dietro alla sbandierata futura introduzione della bodycam, parlando di una misura di “trasparenza”. In realtà, ci sono a questo proposito molte questioni cruciali da considerare, in particolare in merito al delicato aspetto della privacy: sia per gli agenti, che potrebbero essere ripresi in momenti privati (come ad esempio conversazioni individuali con colleghi o mentre si recano in bagno) sia per le persone che potrebbero essere filmate in situazioni umilianti (come vittime di violenza o stupro). Non secondaria è poi la questione della memorizzazione e dell’uso futuro delle registrazioni video, che, come più volte ricordato anche da Amnesty International, necessita di una regolamentazione rigorosa per evitare la conservazione illegale di registrazioni che potrebbero trasformarsi in una banca dati di sorveglianza, violando i diritti alla privacy delle persone riprese, specialmente se le telecamere sono collegate a programmi di riconoscimento facciale e database della polizia. |