A bordo del motorino su cui Davide viaggiava con due amici, la pattuglia dei carabinieri aveva creduto di vedere un giovane ladro che, allontanatosi qualche tempo prima dalla casa in cui scontava gli arresti domiciliari, si era reso irreperibile alle forze dell’ordine.
La morte di Davide giunge a conclusione di una serie di eventi casuali (il primo: la fuga dei ragazzi che viaggiavano con l’assicurazione scaduta; l’ultimo: la madre del giovane che rinuncia stremata a trattenerlo da “un ultimo giro” con gli amici), ma soprattutto è provocata dal comportamento dei carabinieri che inseguono i ragazzi, dalle loro azioni (per esempio, quello che uccide Davide che esce dall’auto disarmando la sicura dell’arma) e dalla foga con cui l’agente si getta verso il corpo del ragazzo, freddandolo mentre era a terra, senza possibilità di causare alcun danno. Per quell’omicidio Gianni Macchiarolo verrà condannato a quattro anni e quattro mesi, poi ridotti dopo un concordato in appello a due anni con pena sospesa. La famiglia Bifolco, nel frattempo, ha dovuto affrontare una ulteriore tragedia: la morte di Tommaso, fratello di Davide, il cui cuore si è fermato pochi giorni dopo la pronuncia della sentenza di secondo grado.
La cosa più banale e vera di cui prendere atto oggi, a dieci anni di distanza dai fatti, è che i meccanismi di potere, sopraffazione, violenza che hanno causato prima, e regolato poi la gestione della vicenda, restano immutati in tutti gli ambiti (poliziesco, amministrativo, giudiziario, politico, mediatico) che hanno a che vedere con questa storia. Davide viene ucciso da un carabiniere in servizio, dopo un inseguimento. Il fatto che non stesse facendo nulla di male e che non fosse in condizione di causare pericoli (non era armato, nonostante un goffo tentativo di inquinamento della scena del delitto, completamente ignorato dalla procura) assume paradossalmente un’importanza relativa se si considera quanto accaduto in città negli anni successivi. Il primo marzo 2020 un altro adolescente, Ugo Russo, veniva ucciso da un carabiniere in borghese dopo che il ragazzo aveva provato a rapinarlo con una pistola giocattolo. Il carabiniere, imputato oggi per omicidio volontario, avrebbe colpito una prima volta il ragazzo con la sua arma d’ordinanza, poi avrebbe spostato l’auto su cui viaggiava, preso la mira e ammazzato il giovane colpendolo alle spalle mentre fuggiva. Pochi mesi dopo, un altro diciassettenne, Luigi Caiafa, veniva ucciso da un poliziotto mentre cercava di compiere una rapina.
I comportamenti omicidi degli agenti delle forze dell’ordine nel nostro paese sono un tema scientificamente eluso dall’agenda politica. Le morti in strada di Aldrovandi (2005), Ferrulli (2011) e Magherini (2014), quelle in carcere, in altre strutture detentive o di controllo, come i casi Cucchi (2009), Traorè (2016), Latif (2021), quelle di tutti i quattordici morti in carcere in circostanze mai chiarite durante le proteste del 2020, ma in realtà tante altre ancora, non possono essere considerate incidenti o frutto della perdita di controllo di qualche “mela marcia”. La questione della violenza della polizia in Italia è un problema enorme, ignorato dai governi di destra e di sinistra, che invece si impegnano, esecutivo dopo esecutivo, ad ampliare lo scarto tra le possibilità date alle forze dell’ordine di agire con la forza e di difendersi nei processi (si vedano in ultimo gli articoli 13, 14, 20 e 22 del Ddl 1016 in via di approvazione), e quelle lasciate alle vittime o alle loro famiglie per far valere i propri diritti. Campagne nazionali e internazionali per l’inserimento degli identificativi sulle divise, per la definanziarizzazione, il depotenziamento e l’abolizione della polizia, sono eluse o liquidate come sciocche utopie, mentre la gestione della crisi economica strutturale e il controllo della marginalità sociale vengono delegate in toto alle forze dell’ordine prima, e a carceri, Cpr, strutture psichiatriche poi, la cui carica di violenza intrinseca mostra passi indietro di decenni in termini di diritti individuali e collettivi.
In una metropoli come Napoli, dove la povertà è in aumento nonostante gli sbandierati “cambi di paradigma” e dove le diseguaglianze si fanno sempre più evidenti (se ne sono accorti persino all’ultima convention di Comunione e Liberazione!), le tensioni vengono affidate alla gestione militare del territorio, sfociando nell’uso della forza quando a subire sono quei soggetti che (per la mancanza di strumenti culturali, economici, politici) non sono in grado di far valere le proprie ragioni nei contesti formali e/o giudiziari.
Nel Rione Traiano, dopo la morte di Davide, diversi gruppi hanno provato a riallacciare il filo con un passato in cui attivisti e militanti politici lavoravano per l’emancipazione di un territorio nato e cresciuto come un ghetto. Giovani studenti hanno interagito con i bambini dell’associazione intitolata a Davide, provando a stringere relazioni con i parroci della parrocchia della Medaglia Miracolosa, a pochi metri dalla casa in cui viveva il ragazzo; un centro sociale è stato occupato, dando vita a una palestra popolare oggi assai frequentata e diventando sede di uno sportello dei disoccupati organizzati in città; iniziative culturali, riflessioni pubbliche, festival, carnevali sociali sono stati organizzati anche con l’obiettivo di mettere in evidenza l’abbandono istituzionale. Alcune iniziative non sono riuscite a sopravvivere, anche perché a quegli appelli, mai elemosinanti ma sempre battaglieri, non sono seguite risposte da parte delle amministrazioni cittadine.
È questo il massimo che possiamo fare in questa sciagurata fase? Sarebbe abbastanza desolante, eppure la crescente sproporzione delle forze in campo ci costringe spesso ad abbassare l’asticella dei nostri obiettivi. Quello che si muove quotidianamente in tanti quartieri ci indica che non abbiamo dimenticato come si fa a costruire proposte, pratiche, alleanze; ma gli ostacoli che ci troviamo davanti si fanno sempre più alti. La storia della morte di Davide produrrebbe probabilmente oggi gli stessi risultati di dieci anni fa: nessuna giustizia in tribunale, tentativi più o meno riusciti di ottenere un ingaggio istituzionale sul territorio, altalenante coinvolgimento degli abitanti del quartiere nei percorsi di lotta. Un mese fa ci interrogavamo su come dare “nuova linfa ed energia ai nostri sforzi quotidiani” e non “tornare dietro le quinte” dopo ognuno degli eventi sacrificali che colpiscono la città e i suoi abitanti. È un interrogativo che va rilanciato in occasione di questo triste anniversario, allo scoccare del quale tutto è cambiato senza che nulla cambiasse davvero. |