Che per il governo Meloni la priorità non fosse la sicurezza sociale era già chiaro senza dover attendere l’ultimo provvedimento. Ma che ben 162 deputati avrebbero tentato di trasformare in legge il vecchio mantra «olio di ricino e manganello», questo no. Il Ddl sicurezza è una stretta repressiva certo, ma non solo. Non ci sono frasi o figure retoriche che siano in grado di restituire anche parzialmente l’assurda pericolosità, la tracotanza e al tempo stesso la cialtroneria di questa classe dirigente. Sì, perché le responsabilità di questo atto oltraggioso rispetto alle urgenze e i bisogni della collettività e del pianeta non sono solo del governo ma anche di tutti quei politici e amministratori che, dal locale al nazionale, hanno fatto in tempi non sospetti da apripista: dai Marco Minniti e Maurizio Lupi fino all’ultimo dei sindaci che ha applicato il daspo urbano. Chiunque adesso si stracci le vesti, ma abbia sostenuto anche uno solo dei decreti degli ultimi 15 anni è corresponsabile di quello che il nuovo Ddl renderà possibile.
Ma cosa, in particolare, renderà possibile? In che modo si è potuto peggiorare ulteriormente un quadro nel quale ogni questione di disuguaglianza di classe e povertà era già trattata come mero problema di ordine pubblico? Le misure già in vigore erano inadeguate e, sotto molti aspetti, anticostituzionali, tanto che sembrava difficile immaginare peggioramenti. Ma il governo italiano, maestro nel distinguersi in negativo, ci è riuscito. Come? Per lo più modificando ad hoc e in modo un po’ posticcio il codice di procedura penale. Chapeau. Senza entrare nel dettaglio dei singoli articoli (sarebbe dispersivo, dato che il disegno di legge tiene insieme regole per l’uso di strumenti pirotecnici con l’attività lavorativa dei detenuti, con le disposizioni per le vittime dell’usura) proviamo a vedere quali sono gli zoccoli duri di questa ingegneria legislativa.
Il Ddl interviene principalmente in quattro ambiti: la gestione dei comportamenti individuali e collettivi nello spazio pubblico e urbano; le condizioni imposte ai detenuti nelle carceri; le restrizioni per i migranti; e l’operatività delle forze dell’ordine. In ciascuno di questi ambiti, ogni misura si traduce in una significativa limitazione dei diritti sociali e umani, accompagnata da un’ulteriore svendita di tali diritti a soggetti privati, che, come il prezzemolo, sta bene un po’ ovunque. Vediamo più nel dettaglio.
Per quanto riguarda lo spazio pubblico e urbano si mettono a punto correttivi, anche se minimi, che stigmatizzano come criminale, come se non lo si fosse sempre fatto abbastanza, azioni come quella «dell’occupazione arbitraria di immobili destinati a domicilio altrui» prevedendo una pena da due a sette anni per chi occupi case o annessi (garage, giardini, terrazzi). Non ci sono attenuanti nel decreto per le motivazioni dell’occupante, ma solo aggravanti in base al profilo di colui a cui viene occupato l’immobile. Un correttivo certo non migliorativo, ma su questo il fu ministro Maurizio Lupi e il suo Piano Casa aveva già giocato delle belle carte. Più degna di nota è l’introduzione della norma soprannominata «anti-Gandhi», volta a punire con la reclusione chiunque blocchi una strada o una ferrovia: se si è in tanti – cioè se si sta organizzando una protesta politica – le pene sono aumentate. Se durante la protesta ci sono lesioni (di qualunque natura, anche morali) ai pubblici ufficiali, la pena aumenta, così come aumenta se «la violenza o la minaccia è commessa al fine di impedire la realizzazione di un’opera pubblica o di un’infrastruttura strategica» (art.19, modifica all’articolo 339 del codice di procedura penale). Strategica come il Ponte sullo stretto, come la Tav Torino Lione e come tutti gli inceneritori, gassificatori e basi militari che si cerca puntualmente di calare sui territori. Si modifica il codice penale anche per punire di più chi commette reati nei pressi delle stazioni ferroviarie (che d’altronde, si sa, peccano in decoro).
Sul carcere invece si interviene in due modi degni di nota. In primis, si cerca di normare le rivolte nei penitenziari – identificate come atti di violenza o minaccia o resistenza agli ordini impartiti – introducendo il reato di resistenza passiva (introduzione art 415bis), ovvero «condotte […] che, avuto riguardo al numero delle persone coinvolte e al contesto in cui operano i pubblici ufficiali o gli incaricati di un pubblico servizio, impediscono il compimento degli atti dell’ufficio o del servizio necessari alla gestione dell’ordine e della sicurezza». Chi diceva che il Covid ci avrebbe reso migliori forse sbagliava. Perché quelle rivolte di fame e dignità non ci hanno lasciato nulla se è, per loro, storicamente e culturalmente possibile proporre questo articolo nelle istituzioni democratiche. In secondo luogo, si mette mano all’organizzazione del lavoro dei detenuti dicendo, per decreto, che le iniziative di promozione del lavoro devono coinvolgere sempre di più e meglio le imprese private. Finanziamenti pubblici alle aziende, insomma. In carcere si può pure morire (e si fa) di mancanza di prospettive e alternative, ma se lo si fa con una co-progettazione pubblico-privato è senz’altro meglio.
Il reato di resistenza passiva si applica anche ai migranti nei Cpr, così come l’innalzamento delle pene per atti di violenza, minaccia o resistenza attiva. Ma è forse sui diritti dei migranti fuori e dentro le strutture di accoglienza che quello che non sembrava possibile diventa di colpo realtà. L’articolo 32 introduce delle modifiche al codice delle comunicazioni elettroniche secondo le quali, le imprese di vendita di schede mobili (ovvero i punti vendita Tim, Wind, Vodafone) «Se il cliente è cittadino di uno Stato non appartenente all’Unione europea”»sono tenute ad acquisire «copia del titolo di soggiorno di cui è in possesso». Nel mondo digitale, nel quale la ricerca di lavoro, l’iscrizione dei figli a scuola, l’accesso al welfare avviene tramite dispositivi elettronici, si annuncia di voler contrastare la marginalità aggiungendone un’altra.
Limitazioni di diritti per tutte e tutti, ma non per le forze dell’ordine. Oltre a consentire a poliziotti e carabinieri di poter portare l’arma d’ordinanza anche fuori servizio, si introduce la possibilità, senza vincoli di sorta, per il personale di polizia, anche ferroviaria, di dotarsi di «dispositivi di videosorveglianza indossabili, idonei a registrare l’attività operativa e il suo svolgimento». Dispositivi da potersi usare anche nei luoghi – qualsiasi luogo – dove siano trattenute persone sottoposte a restrizione della libertà personale. Possibilità, ça va sans dire, che non si applica alle persone in stato di fermo. Niente da fare invece per l’introduzione di numeri identificativi sulle divise degli agenti. Queste dotazioni, anche se non obbligatorie, sono attuabili grazie a un’autorizzazione di spesa per il 2024, 2025 e 2026. Per il lavoro in carcere si chiede l’ingresso più consistente possibile delle imprese, ma per le «body-cam» degli agenti della Polfer no: per quelli pagano i contribuenti.
Accanto a questi molti altri articoli: limitazioni sulla coltivazione della cannabis light, antiracket, benefici per vittime della criminalità organizzata. Tutti articoli animati dallo stesso principio repressivo e anti-sociale di cui questo governo ha già dato prova. Non solo si cerca – come si è fatto in passato – di rispondere a questioni sociali con misure di ordine pubblico, ma ci si pone in netto contrasto rispetto ad alcuni fra i più basilari diritti umani.
Di fronte a un attacco così massiccio e trasversale non sarà sufficiente che siano i militanti politici a farsi sentire e non basterà indignarsi e gridare alle «misure fasciste». Non basterà dirsi contro. È necessario muoversi come associazioni di categoria, sindacati, partiti. Perché questo insulto all’umana intelligenza che il Ddl rappresenta per alcuni potrà essere un esercizio manieristico, ma per molti sarà un sostanziale peggioramento delle proprie condizioni di vita. |