L’inchiesta della procura milanese, culminata con l’arresto di alcuni capi ultras, alimenta un nuovo filone della narrazione complottista. Gli inquirenti meneghini avrebbero aperto il vaso di Pandora di un nuovo mondo di mezzo, dove allignerebbe un’alleanza tra capi ultrà, criminalità organizzata, organizzazioni di destra, trappers, rappers, che inquinerebbe il mondo del calcio, altrimenti pulito e guidato dalla sportività decoubertiniana. Da qui al levarsi di voci moralizzatrici a mezzo di repressione penale, il passo è breve. Ignorando che si tratta di un’inchiesta ancora in corso, e che in fase processuale le posizioni degli imputati spesso si ridimensionano. Si rende perciò necessaria una riflessione che restituisca la contraddittorietà dei fatti.
Innanzitutto, è bene specificare che non ci troviamo di fronte ad una trasformazione della tifoseria organizzata milanese in un’appendice della ‘ndrangheta. Alcuni membri della ‘ndrangheta sono tra gli ultrà, ma l’inchiesta non fa emergere un rapporto di dipendenza. La tifoseria organizzata è dotata di una struttura paramilitare, di una propria subcultura, e le utilizza per controllare il territorio dello stadio. Le attività di cui si occupa, quali la vendita dei replica kit, dei gadgets, il controllo dei parcheggi e degli stand, vengono svolte con forme estorsive, da quel che traspare.
Insomma, si tratta di organizzazioni che, per struttura e finalità, competono sul territorio con la criminalità organizzata, ma non ne dipendono. Esistono forme di conflitto (come l’omicidio Bellocco) e di cooperazione, come spesso avviene, ma non di organicità e di dipendenza.
Quanto al rapporto tra società e ultrà, si tratta di un terreno spesso paludoso. I calciatori, i dirigenti, presenziano a svariate iniziative organizzate dalle tifoserie organizzate, e non necessariamente conoscono in dettaglio i particolari della vita delle persone da cui sono invitate e che gli chiedono i selfie. Certo, c’è la parte relativa ai biglietti, ma anche nei periodi anteriori al calcio globalizzato odierno i canali di conoscenza personale funzionavano per ottenere i tagliandi per assistere al match. È vero che oggi la tessera del tifoso rende tutto più difficile, ma ci sarebbe semmai da riflettere sull’utilità di questo istituto.
L’operazione che va fatta è semmai quella di togliere il velo di ipocrisia in merito ai rapporti tra società calcistiche e tifoserie organizzate. Gli ultrà, col loro presidio e controllo del territorio, rappresentano per un verso un male necessario, con cui le dirigenze debbono fare i conti. Dall’altro lato, però, la loro mobilitazione, rappresenta spesso una risorsa a cui i vertici attingono per dirimere conflittualità interne, per liberarsi di allenatori o calciatori scomodi, per fare pressione sugli organismi direttivi nazionali. Ancora ricordiamo il 2003, quando la tifoseria laziale aiutò la dirigenza biancoceleste a risolvere la controversia col fisco, o quella dei tifosi catanesi per ottenere la riammissione in serie B, con alla testa personalità politiche di spicco.
Se qualche sospetto affiora, riguarda il modo in cui la vicenda rappresentata a livello mediatico. Ultrà, mafiosi, trappers, vengono ammucchiati in un unico sottobosco lombrosiano, pronti a sferrare la minaccia sul civile mondo calcistico. Una lettura facile, ad uso dei benpensanti di ogni colore politico, che però sortisce due risultati immediati. Il primo è quello di distogliere ulteriormente l’attenzione su passaggi di proprietà, investimenti e crisi finanziarie che investono il calcio italiano, che vedono all’opera personaggi su cui non ci si interroga fino in fondo. In secondo luogo, l’inchiesta cade a fagiolo proprio quando entra nel vivo la questione sul nuovo stadio di Milano.
Le dirigenze delle squadre milanesi, come le altre, smaniano per devitalizzare gli stadi, rimasti l’uno luogo di aggregazione di massa, per trasformarli nella brutta copia di centri commerciali. Questa inchiesta può aiutare ad accelerare il processo di bonifica auspicato. È vero, gli ultrà sono egemonizzati dalla destra. Ma non è solo colpa loro, ma anche di chi ha scelto di abbandonare il territorio. E di chi traveste il business da De Coubertin. |