L’esame autoptico, più noto come autopsia, è un esame che si effettua dopo la morte di una persona con l’obiettivo di accertarne le cause, i tempi e le modalità. L’autorità giudiziaria può disporre l’autopsia quando si sospetta che la morte sia collegata a un reato o comunque sia avvenuta in circostanze non chiare. In molti Stati europei, quando il decesso avviene in un istituto penitenziario, l’autopsia è obbligatoria. In altri, come l’Italia e la Serbia, no: quando una persona detenuta muore e le circostanze del decesso vengono considerate “evidenti” o “palesi” l’esame autoptico è ritenuto inutile. Per questa ragione, ribadita per iscritto dal Ministro della Giustizia Nordio, la richiesta della famiglia di Stefano Dal Corso, giovane romano detenuto e poi morto a Oristano, è stata respinta per ben sette volte. Secondo il ministro, la sua era una morte “avvenuta in circostanze palesi”. Almeno fino a quando l’ottava richiesta non è stata accolta.
Marisa Dal Corso, sorella di Stefano, intervenendo mercoledì alla conferenza stampa presso la Camera dei deputati, ha mostrato come questa presunta “evidenza” sia tutta da dimostrare. Per lei e per la sua famiglia le certezze sono altre: Stefano stava per uscire dal carcere, avrebbe riabbracciato la figlia e immaginato, insieme a lei, un prossimo futuro da libero. Eppure poco tempo prima della sua scarcerazione è stato trovato morto nel reparto dell’infermeria dell’istituto sardo, esattamente due anni fa, in condizioni che secondo le relazioni ufficiali sarebbero compatibili con il suicidio.
È utile fare un passo indietro e tornare a un articolo di Luna Casarotti, scritto nell’agosto del 2023, proprio a partire dalle parole della sorella di Dal Corso: “La ferita che Stefano aveva attorno al collo – si evinceva già all’epoca da una delle perizie – sembrava più vicina a quella di uno strangolamento che non a una impiccagione”.
Armida Decima, legale della famiglia Dal Corso, durante la conferenza ha spiegato che l’unico modo per dimostrare che non si sia trattato di strangolamento ma di “impiccagione atipica” (parte del corpo che poggia su una superficie) sarebbe stato quello di verificare lo stato dei polmoni al momento del decesso. L’autopsia però è stata accordata solo nel gennaio del 2024, ossia più di un anno e mezzo dopo il decesso, quando il corpo era ormai in stato di avanzato deterioramento.
Tuttavia, l’autopsia ha comunque restituito alcuni dati importanti: l’osso del collo, diversamente da quanto era stato lasciato intendere, non era rotto, ma perfettamente integro. Sulla coscia, lato interno, è stato rinvenuto un ematoma profondo, compatibile con un calcio. Inoltre, dalle analisi del sangue risultano evidenti tracce di medicinali, che certo potrebbero essere anche compatibili con la terapia che Stefano seguiva in carcere. Per esserne sicuri occorrerebbe però stabilire l’esatto dosaggio di queste sostanze presenti nel sangue, cosa impossibile dopo tutto questo tempo.
E quindi? È proprio Decima a spiegarlo ai giornalisti: “I risultati dell’esame autoptico consentono di ritenere che le modalità siano compatibili con il suicidio? Si, ma allo stesso tempo non si può escludere una morte per strangolamento”. A questo interrogativo se ne aggiunge un altro, che deriva dalla presenza di tracce di sangue sul lenzuolo di Stefano. Da quel sangue sono ravvisabili tracce di Dna anche diverso dal suo. Alla richiesta, però, dell’avvocato della famiglia, di confrontare il Dna trovato con quello di chi era entrato effettivamente in contatto con Stefano quel giorno, la procura di Oristano non ha mai risposto. Piuttosto, ha fatto seguire una seconda richiesta di archiviazione. A cui, è stato ribadito mercoledì, la parte civile si opporrà.
Le morti in carcere sono sospette per definizione: lo sono nella misura in cui il decesso all’interno di un penitenziario dovrebbe apparire come una anomalia del sistema. Lo Stato dovrebbe custodire il corpo del recluso, rispondere ai suoi bisogni e tutelarne l’incolumità. E quando questo non avviene, quando il corpo perisce, dovrebbe essere lo Stato stesso a pretendere la verità.
A questo proposito, intervenendo in conferenza, i parlamentari Roberto Giachetti e Ilaria Cucchi hanno affermato la necessità di portare avanti un disegno di legge che è oggi in Commissione Giustizia e che intende introdurre, anche in Italia, l’autopsia obbligatoria per le morti in carcere. “I dati statistici rispetto ai decessi nelle strutture detentive – si legge nel ddl – riportano ogni anno diversi casi in cui non sia possibile accertarne precisamente le cause. Sono stati infatti numerosi in passato i casi nei quali le versioni ufficiali presentano zone d’ombra e incongruenze tali da far nascere il sospetto che mascherino degli episodi di maltrattamenti a opera di agenti o di violenza da parte altri detenuti”.
Alla fine della conferenza Marisa Dal Corso ha raccontato di aver ricevuto molte segnalazioni da parte di familiari di altri detenuti: le violenze, quando raccontate, ne portano con sé altre, più nascoste e dimenticate. In fondo, quello che chiede lei è quanto chiedono molti di loro: vivere senza il dubbio che un proprio caro sia morto nella menzogna e nell’oblio. |