«Un altro uomo nero è morto per mano di un poliziotto. Si chiama Diarra Moussa, e ha diritto a un’indagine seria, trasparente e indipendente», si chiude così il volantino appoggiato a terra, tra i fiori, le candele e le fotografie, la sera del 21 ottobre nel momento del ricordo del giovane 26enne ucciso da un colpo di pistola sparato da un poliziotto della Polfer davanti alla stazione di Verona Porta Nuova.
Le ricostruzioni che fin da subito hanno iniziato a circolare, anche a seguito di una nota congiunta della Procura e della Questura di Verona, stridono con le tante testimonianze di chi a vario titolo era entrato in contatto con il ragazzo.
Un uomo pericoloso che si aggirava per alcune zone della città brandendo un coltello, quasi a giustificare che allora sì, si può anche uccidere una persona in evidente situazione di difficoltà, che sta male. Ma chi lo conosceva non può credere a questa versione dei fatti.
Per chi decide di intraprendere un percorso migratorio i rischi e i pericoli non finiscono una volta approdati sul nostro territorio. I “respingimenti” non avvengono solo sui confini di mare o di terra, ma continuano inesorabilmente nell’iter per ottenere un permesso di soggiorno, per avere un posto dove dormire, per trovare un lavoro dignitoso o per essere presi in cura dal sistema sanitario.
La qualità della vita delle persone migranti e l’accesso ai diritti fondamentali dipende il più delle volte dalla Questura: non brilla di certo per empatia e tutele quella di Verona, il cui operato è stato spesso denunciato dalle organizzazioni della società civile, che in un recente dossier pubblicato a fine giugno dall’Osservatorio Migranti Verona[1], sottolinea dopo un minuzioso lavoro di monitoraggio i modi di selezione e differenziazione per accedervi, le prassi illegittime, gli spazi inadeguati e la scarsità di informazioni anche nei confronti dei legali.
Addirittura, nel 2023 alcune testimonianze di violenze subite in Questura emergono da un’inchiesta della magistratura. Gli abusi compiuti dagli agenti su persone fermate fanno scoppiare il caso: venticinque tra poliziotti e poliziotte vengono accusati, con diverse responsabilità, di reati di tortura, lesioni, falso in atto pubblico, abuso di autorità, omissione di atti d’ufficio e abuso di ufficio.
La vita delle persone migranti è costretta ad un’attesa continua, interminabile, e a volte per molte, insostenibile. Moussa viveva un momento di depressione, si era rivolto al Cesaim (Centro Salute per Immigrati).
«La costruzione della figura del “mostro” affidata a cronisti di comodo, non rende giustizia a quanto noi sappiamo di Moussa, che in questi anni aveva trovato riparo alla casa occupata del Ghibellin Fuggiasco» – scrivono le attiviste del Paratod@s – «unico luogo che a Verona ha assunto l’impossibile responsabilità di essere luogo per i senza luogo, per tutte quelle persone che, a causa del razzismo strutturale, anche in presenza di regolari contratti di lavoro, subiscono discriminazioni abitative».
Nelle stesse ore in cui Moussa è stato ucciso questo spazio sociale, assieme ad una vasta rete di altre organizzazioni e singoli[2], aveva iniziato i lavori di autorecupero e pulizia di un complesso in Via Villa 12 a Quinzano. Abbandonato da 20 anni, era un istituto per ragazzi orfani di proprietà dell’Iciss (Istituti Civici di Servizio Sociale).
Proprio qui si stava svolgendo “Recuperiamo spazi di libertà, fermiamo il DDL Sicurezza”, una 2 giorni di discussione e incontri sul tema dell’emergenza abitativa dopo che l’esperienza del Ghibellin Fuggiasco, in cui anche Moussa aveva trovato rifugio, non aveva più le condizioni di sicurezza necessarie per rimanere aperta.
«In questi anni di pressioni e lotte, il comune non ha mai trovato una soluzione per le quasi cinquanta persone alloggiate al Ghibellin», continua il Paratod@s.
Il fratello di Moussa, Djemagan Diarra, che è arrivato da Torino, per il riconoscimento del corpo e la nomina di un avvocato, ripete una cosa chiara. Vuole vedere le immagini delle telecamere. «Mio fratello non beveva e non si drogava. Non era un delinquente. Non voglio che sia ricordato così. Stava male. Gli avevano fatto di tutto in Libia. Non è giusto».
Ieri sera (lunedì 21 ottobre, ndr) al presidio per ricordarlo in tante e tanti hanno preso la parola[3]. «E’ sempre stato un bravo ragazzo, un ragazzo pulito», hanno spiegato dal megafono gli amici che abitavano con lui al Ghibellin Fuggiasco.
Intanto per sabato 26 ottobre la comunità maliana ha promosso una manifestazione cittadina.
Sono molti i lati oscuri di questa terribile vicenda e solo un’indagine indipendente potrà chiarire. Di chiaro c’è soltanto che Moussa non l’ha ucciso la morte ma un colpo di pistola sparato da un agente di polizia. |
[1] «Limite invalicabile» mette sotto accusa la Questura di Verona. Un dossier dell’Osservatorio Migranti Verona
[2] Paratodos, Circolo Pink, Mediterranea, Osservatorio migranti, CESAIM, Osservatorio comunità diritti sociali, ADL Cobas, Sesamo ODV, NUDM, Partito della Rifondazione Comunista, Rete Radie Resch
[3] Verona: centinaia di persone davanti alla stazione di Porta Nuova “Per non dimenticare Moussa”, le testimonianze raccolte da Radio Onda D’Urto |