La questione migratoria occupa non solo le cronache politico-giudiziarie. Nel tardo pomeriggio di lunedì 4 novembre il Cara di Bari-Palese, il Centro di accoglienza per richiedenti asilo che dal 19 ottobre ospita, tra gli altri, anche 12 dei 16 migranti che erano stati portati a bordo della nave Libra della Marina militare nell’hotspot albanese di Gjader, salvo poi fare ritorno in Italia, è scoppiata una rivolta.
Disordini scoppiati nel pomeriggio e proseguito fino alla serata di lunedi 4 novembre, provocati dalla rabbia degli ospiti del Centro di accoglienza in seguito alla morte di un 33enne che era “detenuto” al suo interno. L’uomo il 3 novembre aveva accusato un malore: curato con una compressa all’interno del Centro, nel quale di notte non è più operativa l’infermeria le sue condizioni si sono aggravate ed è stato portato lunedì mattina all’ospedale San Paolo di Bari.
Qui l’uomo è morto: secondo prime ricostruzioni il 33enne avrebbe ingoiato delle batterie o altri piccoli oggetti metallici prima di sentirsi male, ma per avere certezze su quanto accaduto servirà aspettare l’esito dell’autopsia disposta dalla Procura di Bari.
Quando la notizia della morte del 33enne si è diffusa nel Cara di Palese, la tensione è salita: gli altri ospiti, tra cui alcuni amici della vittima, avevano chiesto di poter andare in ospedale ma non è stato possibile. Così è scoppiato il caos: alcune decine di persone avrebbero assalto la mensa danneggiando le suppellettili, con la situazione è tornata sotto controllo solo dopo diverse ore con l’intervento della polizia.
Una rivolta che non sorprende: da mesi si ripetono gli allarmi sulla situazione all’interno del Cara di Polese, tra sovraffollamento e lamentele per la scarsa sicurezza nel Centro di accoglienza.
«Il modo in cui siamo costretti a vivere è sgradevole, dentro un container ci sono dieci persone, quando ce ne dovrebbero essere quattro. Molte di loro devono stare in campagna, nel circondario tra Bitonto, Palo, Bitritto dalle 5 e 30 del mattino. Dal Cara si può uscire solo dalle 7. Cosa dovrebbero fare? Devono scavalcare muri di sei metri con filo spinato? C’è gente che si è fratturata le braccia per farlo». E ancora: «Se si torna dal lavoro dopo le 21 non puoi più entrare e dormi fuori. La prigione si chiude alle 20.30. Pensate sia un piacere scavalcare? Uscire così d’inverno, sotto la pioggia? Il prefetto e la politica sanno tutto questo, li tengono in prigione, in una zona militare protetta. Non possono entrare e uscire liberamente, come banditi e mafiosi. Questa è la prima cosa che bisogna cambiare, è un bunker».
Ufficialmente, si tratta di una struttura di prima accoglienza tesa a ospitare i richiedenti asilo nella fase immediatamente successiva al loro ingresso sul territorio italiano, fino alla registrazione della domanda di asilo, entro trenta giorni. La permanenza nel centro, quindi, dovrebbe essere di natura transitoria. Ma la realtà è diversa. Ubicato all’interno di una base militare, circondato da un’alta recinzione in filo spinato controllata h24, e totalmente sconnesso (e distante) dal tessuto cittadino, il Cara di Bari, inaugurato nel 2008 con una capienza ufficiale di 744 posti e una tollerabile di oltre mille (attualmente presenti nella struttura), è l’ennesimo ghetto «informale» che fa da sfondo alle campagne pugliesi. Al suo interno vivono donne, bambini, intere famiglie.
Le condizioni igienico sanitarie sono pietose: solo negli ultimi mesi, in rapida successione, i ratti avevano morso e infettato un utente ed erano state rinvenute delle blatte nei piatti sigillati del servizio mensa. È in questo contesto che dodici richiedenti asilo, cinque egiziani e sette bengalesi inizialmente reclusi a Gjader, sono stati trasferiti dall’Albania.
Le proteste sono poi continuate anche nella mattinata di ieri, quando un centinaio di migranti ha organizzato un corteo per denunciare le condizioni di vita precarie all’interno del Cara: una marcia non violenta diretta a Bari, con la scorta della polizia, fino al raggiungimento della Prefettura per un presidio di protesta. |