«La vergogna di Prato in tutta Italia», così veniva definita la locale casa circondariale della Dogaia alla fine dello scorso anno, quando è stato registrato il drammatico record di suicidi a livello nazionale, iniziato con il primo caso già a febbraio 2024. Addirittura quattro i detenuti che si sono tolti la vita nell’arco di appena sette mesi, in circostanze a volte poco chiare e tuttora in fase di accertamento. È il caso ad esempio del giovane detenuto di appena 27 anni trovato impiccato nella propria cella, proprio il giorno seguente a una rivolta, scoppiata nella prima sezione del reparto di media sicurezza a fine luglio per protesta contro le pessime condizioni igieniche e il caldo insostenibile.
Oltre la spaventosa serialità di questi delitti, avvenuti su persone in custodia e private della libertà, non si può certo parlare di casi isolati, date le condizioni strutturali e l’incuria gestionale in cui versa da tempo il carcere pratese, che chiama direttamente in causa il governo Meloni.
L’edificio è stato costruito nella metà degli anni Ottanta e messo in funzione nell’agosto del 1986, un istituto penale medio-grande, con una superficie di 71 mila metri quadri, comprensiva di reparti detentivi, uffici della direzione e alloggi demaniali, il primo a ospitare un polo universitario al suo interno e il secondo più grande sul territorio toscano per numero di detenuti e per tipologie di detenzione differenti.
Al suo interno il carcere è costituito da quattro reparti: il più numeroso di media sicurezza con otto sezioni fra cui quella dei sex-offenders, poi quello di alta sicurezza alla nona e alla decima sezione, con diversi detenuti affiliati alla criminalità organizzata di stampo camorristico; infine quella dei «collaboratori di giustizia» e il reparto di semilibertà, destinati anche ai beneficiari degli artt. 20 e 21 per lavori esterni.
Secondo i dati del Ministero dell’Interno sussiste tuttora, un sovraffollamento cronico per almeno una cinquantina di detenuti oltre la capienza regolamentare, pari a circa 580 posti. Sebbene l’incidenza non sia paragonabile a quella di altri istituti penitenziari davvero al collasso, secondo Donato Nolè, coordinatore nazionale del sindacato della polizia penitenziaria per FP Cgil, «il dato potrebbe essere falsato, perché alcuni singoli reparti presentano più reclusi del previsto». A dicembre scorso le celle disponibili risultavano intorno alle 290 unità, tanto che in alcune sono stipati anche tre detenuti, mentre le docce funzionanti censite si limitano a 25 per l’intera popolazione carceraria, manca l’acqua calda nei bagni, sprovvisti di bidet, privi di finestre e con aspiratori spesso non funzionanti. A essere più sotto pressione secondo molte testimonianze è proprio il reparto di media sicurezza, dove nelle celle sempre piene viene meno la disposizione a norma di legge dei tre metri quadri disponibili a persona.
Anche laddove sulla carta risultano presenti spazi comuni e impianti non è sempre detto che siano effettivamente fruibili, come nel caso di alcune stanze adibite a biblioteca, laboratorio o a servizi socio-sanitari, di fatto sottoutilizzati specialmente dopo le restrizioni anti-pandemiche.
A detta degli operatori questo è dovuto anche alle lungaggini iperboliche delle procedure burocratiche, di cui l’amministrazione penitenziaria soffre in modo esasperante; e che si ripercuotono anche sulle attività organizzate da vari soggetti all’interno dell’istituto. A questo proposito basti notare che nella scheda sul sito ministeriale risultano assenti le attività culturali, in realtà attualmente in corso di svolgimento, come il progetto di Teatro Metropopolare, che dal 2008 ha creato un laboratorio permanente di ricerca e produzione teatrale, a cui lavorano attori detenuti e artisti del collettivo.
In larga parte l’inaccessibilità a strutture e servizi deriva anche dalle carenze gestionali, in particolare dal sottodimensionamento dell’organico del personale amministrativo e di polizia penitenziaria, che registrano ancora la mancanza di una trentina di addetti, compresi educatori, come denunciato dall’ultimo rapporto dell’associazione Antigone. Dalla panoramica della Onlus si legge infatti come le «criticità tipiche del carcere in questo periodo […] trovano a Prato la massima espressione» per la complessità «nella varietà della popolazione detenuta […] e criticità fattive nella realizzazione di percorsi con finalità rieducative» nella cui area «i 7 educatori hanno affidati circa 100 detenuti ciascuno».
Dai dati consultabili sulla popolazione carceraria, che nella scorsa primavera aveva superato di quasi duecento persone la capienza massima, con beneficio d’inventario dovuto ai numerosi detenuti in transito, circa 350 reclusi stanno scontando una pena definitiva, 50 sono appellanti, una quarantina ricorrenti in Cassazione e ben 95 sono in custodia cautelare, quindi ancora in attesa del primo giudizio, dato su cui si punta il dito sollecitando misure alternative per allentare la pressione sull’istituto. Gli stranieri internati sono poco meno della metà del totale e nel tempo si è consolidata una certa suddivisione anche su base etnica, ad esempio con detenuti di origine albanese prevalentemente confinati nella sesta sezione di media sicurezza, probabilmente anche con il proposito di mantenere un clima di confidenza reciproca, ma specie nei casi in cui servizi e attività socio-sanitarie vengono a mancare, con il crescente rischio di un settarismo discriminante, foriero di segmentazione per bande di appartenenza.
Un altro elemento di difficoltà deriva dal fatto che quasi la metà della popolazione carceraria della Dogaia è sottoposta a terapia farmacologica e/o psichiatrica, addirittura fino a 450 detenuti che fanno uso di sedativi o ipnotici secondo il rapporto di Antigone, ovvero in molti casi di pazienti che necessitano cure e percorsi specifici, inaccessibili in un istituto come quello di Prato, a differenza invece delle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems) dedicate a disturbi mentali, dove però i posti sono pochi e le liste d’attesa molto lunghe.
Lo stillicidio di rivolte, aggressioni, atti di autolesionismo e suicidio ha da tempo generato una situazione insostenibile, che ha portato a ripetute mobilitazioni le realtà sindacali e la camera penale del territorio. «Il carcere di Prato è il ricettacolo di tutti i detenuti problematici. La struttura non è più in grado di ricevere dall’intero distretto e non solo, detenuti trasferiti per ordine e sicurezza – avevano scritto in una nota le sigle sindacali della polizia penitenziaria –, o detenuti problematici trasferiti in sede con la maschera dello sfollamento».
Se da un lato la Dogaia appare l’ennesimo caso di struttura detentiva trascurata, nello stato generale di incuria ai limiti dell’invivibilità del sistema penitenziario italiano; l’anomalia pratese anche rispetto al tragico numero di suicidi sembra derivare proprio dalle criticità nella composizione della popolazione carceraria, combinata con la latitanza dell’amministrazione penitenziaria, incapace di gestire la situazione e rendere pienamente operative strutture e servizi.
Non più tardi di maggio scorso infatti la Garante dei Diritti delle Persone private delle Libertà, la dottoressa Margherita Michelini referente del territorio pratese, sosteneva che «nel carcere della Dogaia c’è una disorganizzazione totale» dovuta alla pessima gestione degli spazi, alle scarse opportunità di reinserimento con progetti formativi o lavorativi, ma soprattutto alla latitanza dei vertici dell’amministrazione penitenziaria, da tempo soltanto reggenti, con tutte le ricadute in termini di scarso coordinamento.
«Da oltre due anni manca il commissario comandante di reparto, mancano funzionari, scoperti per l’80% – ha sostenuto la Garante in un’intervista alla Tv locale – Anche il direttore è facente funzione, si tratta dell’attuale direttore del Gozzini a Firenze».
In risposta ai numerosi appelli e ai tragici fatti di cronaca, a giugno 2024 era arrivato in visita anche il sottosegretario alla giustizia, Andrea Delmastro delle Vedove, che durante la passerella mediatica a Prato non aveva trascurato annunci sull’equipaggiamento che intendeva fornire con dovizia di particolari su «scudi antisommossa e guanti antitaglio». Come d’abitudine il sottosegretario aveva poi dato fiato a promesse sulla rapida risoluzione di una direzione stabile, con la nomina «fra pochi giorni un comandante titolare e a settembre un direttore titolare assegnatario», che a distanza di mesi non si sono mai ancora davvero insediati, tanto da esasperare il personale, che commentava la necessità di «non dare respiro al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, che alimenta sterili trofei laddove sofferenza, disagi e disorganizzazione hanno preso il sopravvento».
Dopo l’ultimo suicidio in ordine di tempo, a fine novembre si è tenuto un consiglio comunale straordinario, che aveva chiesto all’unanimità misure urgenti per sanare la situazione a Regione e Governo, definito colpevolmente assente sulla questione. Per l’occasione era stato infatti inoltrato l’invito al Ministro Carlo Nordio, a Firenze proprio in quei giorni, che non ha però trovato il modo di concedere un po’ della sua attenzione a fronte di una scia crescente di disagio e di vittime nel carcere pratese. Del resto la disaffezione del governo Meloni alle condizioni detentive della struttura pratese era già emersa dal parere negativo alla proposta di stanziare risorse finanziarie, organizzative e di personale per sanare la situazione di crisi del carcere della Dogaia. Al netto dei proclami, i fatti sembrano delineare piuttosto un tatticismo della destra, che si esime da provvedimenti tanto urgenti quanto potenzialmente risolutivi in una città amministrata dai partiti di opposizione.
Al di là della «consulta del carcere» per il coordinamento di tutte le realtà – associative, cooperative, politico-istituzionali – in un organo consultivo, l’assemblea cittadina ha votato un ordine del giorno per allentare la densità detentiva, potenziare gli organi di polizia penitenziaria e rivedere lo stato strutturale. Auspici doverosi, che allo stato attuale restano carenti di una progettazione concreta, tanto che anche la proposta di stanziamento di risorse per oltre 300 mila euro tramite bandi della Regione Toscana, anticipata dal consigliere regionale Marco Martini, non ha trovato seguito nell’ultima delibera di Giunta sull’aggiornamento del Piano Regionale per la prevenzione delle condotte suicidarie nel sistema penitenziario, che nel dispositivo specifica come «dall’approvazione del presente atto non derivano oneri a carico del Bilancio».
In uno stato in cui anche la normale amministrazione penitenziaria appare utopistica per esplicite scelte di governi, che dichiarano di voler «buttar via la chiave» e in effetti si dimenticano cronicamente di nominare una direzione effettiva e dei vertici amministrativi in grado di garantire una gestione dignitosa, raramente anche il dibattito locale prende in considerazione misure alternative al sistema detentivo.
Eppure molti operatori non mancano di sottolineare come nei luoghi in cui si investe in formazione e riabilitazione diminuisca la recidiva; e questo dipende anche dalla qualità dei lavori offerti dal Ministero di Giustizia e dagli orientamenti culturali stessi dei magistrati di sorveglianza sul ricorso a istituti alternativi.
Nella concezione ultra-securitaria e repressiva del governo al potere, le peculiarità del carcere di Prato non sembrano un’anomalia, ma il corollario deliberato di politiche di iniquità ed emarginazione sociale, con l’esperienza detentiva che amplifica la deriva in termini di perdita di coscienza di diritti sociali e civili. Perciò a fronte di sovraffollamento e disagio crescente non basta aumentare il numero di strutture carcerarie per riempirle di nuovi reati penali. Al contrario anzi, più questi numeri aumentano, più la condizione di mera componente numerica priva la popolazione detenuta di servizi adeguati e quindi di prospettive nel raggiungere la missione rieducativa degli istituti penali. Questo e altro sarà al centro della discussione in programma domenica 26 gennaio con l’evento di presentazione, promosso dal Comitato 25 Aprile di Prato alla Casa del Popolo di Cafaggio, dell’ultimo numero di Jacobin Italia sul Regime di massima sicurezza, a cui interverranno diverse realtà del territorio per confrontarsi sulla situazione locale, in un contesto di crescente repressione del dissenso, anche nell’ottica di organizzare un gruppo di lettura jacobino nella Piana fra Prato, Firenze e Pistoia. |