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DAVIDE LIBERO











Il realismo a senso unico di Netflix: da “Mare Fuori” ad “Acab”

 

FONTE:Volere la Luna

 

C’è stato un tempo in cui il cinema neorealista proponeva un ribaltamento del senso comune muovendosi in una prospettiva di trasformazione sociale radicale. Oggi il neorealismo è sostituito dalle serie televisive di Netflix fondate sulla spettacolarizzazione del conflitto, sull’allineamento sistematico all’operato della polizia (acriticamente identificata con “i buoni”), sulla sollecitazione di maggior repressione. Ultimo il caso di Acab.

 

Alla fine degli anni Settanta, in Inghilterra, prese piede la teoria criminologica del left realism (realismo di sinistra), che muoveva dalla necessità di prendere sul serio la questione criminale, per non lasciarla nelle mani delle destre. I left realists, tra i cui maggiori esponenti ricordiamo Jock Young e Roger Matthews, proponevano uno schema quadrangolare di lettura dei fenomeni criminali. I vertici del quadrato sono costituiti dai rei, dalle vittime, dal pubblico e dalle agenzie di controllo sociale formali, ovvero la polizia, la magistratura e i servizi sociali, in quanto articolazione dei poteri statali. La lettura dei fenomeni criminali, per il realismo di sinistra, sarebbe la risultante dell’interazione di questi quattro fattori.

Lo schema analitico del realismo di sinistra ci torna in mente in relazione alla produzione di serie tv che riguardano fatti di criminalità prodotti dalla piattaforma Netflix. Da Sanpa, su San Patrignano, ad ACAB, che propone in versione televisiva anche i fatti relativi alla protesta No-Tav, passando per Mare Fuori, sulla criminalità minorile, la piattaforma televisiva si accredita come un attore sproporzionatamente rilevante in merito alla lettura dei fatti criminali. Ne scaturiscono la formazione dell’opinione pubblica e una produzione di panico morale che ispirano molto spesso, specialmente negli ultimi anni, le politiche governative. In particolare, colpisce come Netflix si collochi sempre simmetricamente a chi evoca ed avoca l’implementazione di misure maggiormente repressive per risolvere questioni sociali stridenti. Partendo dalla buona fede di chi ha prodotto e realizzato le serie, non si possono non riscontrare i limiti insiti in ogni spettacolarizzazione dei fenomeni sociali, quantomeno di quelle prodotte in anni recenti. In altre parole, il canovaccio viene adeguato ai parametri richiesti dal format di successo, per cui bisogna proporre sempre la dicotomia tra figure positive e negative, con la vittoria ovvia dei primi, e la resa mediatica consiste nell’accentuazione caricaturale di queste caratteristiche.

Con riferimento, in particolare ad ACAB e alla questione del Tav, le caratteristiche negative si attribuiscono ovviamente ai protestatari, un po’ affetti da fanatismo ideologico e un altro po’ composti da una popolazione anziana, nostalgica del passato, non criminalizzabile per questioni di anagrafe, ma sicuramente preda del fanatismo. Ai No-Tav viene reso l’onore delle armi all’interno di un’epica degli scontri che, oltre ad essere figlia del politicamente corretto odierno, marcia in parallelo con quell’estetica della violenza che fa la fortuna dei prodotti mediatici ispirati all’azione. Last but not least, la scelta di identificare i buoni tra le schiere delle forze dell’ordine, è figlia del vento che soffia dalla caduta del muro di Berlino in poi, per cui chi ricopre un ruolo istituzionale si colloca sempre dalla parte giusta. Un’impostazione che sorvola sugli abusi compiuti dalle forze di polizia, in particolare quelli sui dimostranti, come da Genova 2001 a Pisa nella scorsa primavera, abbiamo avuto modo di constatare. E che strizza pericolosamente l’occhio all’assunto della premier per cui “criticare i poliziotti è pericoloso”, tanto da ispirare il disegno di legge 1660, lo scudo penale per le forze dell’ordine, la modifica (cioè l’abolizione de facto) del reato di tortura. Le ragioni della protesta rimangono fuori, eppure avrebbero potuto interessare il pubblico. Dallo scempio del territorio alla distruzione di intere comunità, per non dire dello sperpero di ingenti quantitativi di risorse pubbliche, oltre all’inutilità dell’opera, asserita anche Oltralpe, argomenti con cui attirare l’attenzione del pubblico ce ne sarebbero stati molti. Altri importanti aspetti, come la criminalizzazione dei No Tav operata dalla magistratura torinese, l’uso discutibile degli arresti e delle carcerazioni preventive, le accuse di terrorismo, la carcerazione di una donna in età avanzata come Nicoletta Dosio, avrebbero meritato ben altra sorte dell’essere omessi o considerati implicitamente come normali conseguenze.

Non è la prima volta, si diceva, che Netflix propone questo tipo di interventi sull’attualità. Basti pensare a Mare Fuori, dove i minori protagonisti cadono fatalmente nel loro destino lombrosiano di criminali, rifuggendo l’aiuto degli angeli istituzionali e le opportunità fornite all’interno della struttura detentiva. Una rappresentazione fuorviante del sistema penale minorile italiano, considerato uno dei migliori d’Europa, con l’utenza penale ridotta ai minimi termini e i detenuti prevalentemente di origine migrante o rom che scontano la loro marginalità sociale, oltre alla mancanza di risorse, agli squilibri territoriali in termini di servizi e all’habitus talvolta familista degli operatori del sistema minorile. Eppure, Mare Fuori, ha plasmato l’immaginario collettivo rispetto alla devianza minorile, producendo la proliferazione di articoli e discussioni sulle presunte baby gang culminate col decreto Caivano e con l’aumento esponenziale dei minori detenuti.

Il rapporto tra le serie televisive e il pubblico ci permette di tornare allo schema proposto dai realisti di sinistra. Quando Young e Matthews proposero il loro schema interpretativo, in uno dei vertici del quadrato del crimine, ovvero, quello del pubblico, circolavano letture contrapposte dei fenomeni criminali. I filtri robusti delle organizzazioni di massa, della partecipazione diffusa, del confronto, che gravitavano attorno alle strutture della classe operaia, consentivano di proporre valutazioni ed elaborazioni più articolate dei fenomeni sociali, che avevano la loro ricaduta sia sull’operato degli apparati statali sia sulla capacità di analizzare i contesti all’interno dei quali i reati avevano luogo. Soprattutto, la prospettiva, condivisa da tutti, era quella dell’inclusione, del reinserimento. Fu proprio in questo contesto che cominciarono a svilupparsi le politiche di riduzione del danno. Quanto al pubblico, nel caso italiano, oltre alla stampa democratica e di sinistra, potevamo contare su un apparato di produzione mediatica di livello. Si pensi al neorealismo, a registi come Pasolini, Lizzani e Montaldo, ad attori come Gian Maria Volonté, a film come Sciuscià o a lavori documentali come quello sulla strage di piazza Fontana. Prodotti mediatici che proponevano un ribaltamento del senso comune, tentavano di egemonizzare il discorso pubblico, perché rispecchiavano una prospettiva di trasformazione sociale radicale.

La ristrutturazione socio-economica neo-liberista, sfaldando le organizzazioni di massa, evaporando la prospettiva di un cambiamento, comporta la subordinazione delle opere di divulgazione alla necessità di attrarre audience per realizzare profitti. Ne consegue un detrimento della qualità dei prodotti e la circolazione di un senso comune securitario che tracima in una sfera politica sempre più orientata alla sopravvivenza spiccia. Davvero, ridateci il neorealismo.

 

Vincenzo Scalia