Nel cuore delle carceri italiane si consuma una tragedia silenziosa e costante: quella dei suicidi tra i detenuti. Il sistema penitenziario, sempre più afflitto da sovraffollamento, carenza di personale e strutture inadeguate, si trasforma troppo spesso in una trappola mortale per chi vi è recluso. A questo si aggiunge una questione giuridica tanto delicata quanto urgente: la mancata rideterminazione delle pene a seguito di mutamenti normativi, che alimenta la sensazione di abbandono e ingiustizia.
Nel solo 2025, fino ad agosto, sono già oltre 60 i detenuti che si sono tolti la vita dietro le sbarre. Si tratta di numeri allarmanti, che confermano un trend in crescita e pongono l’Italia ai vertici europei per suicidi in carcere. Dietro ogni numero, una storia di solitudine, di disagio psichico, di disperazione. I fattori scatenanti sono molteplici: condizioni detentive disumane, tempi lunghissimi della giustizia, mancanza di supporto psicologico, ma anche l’assenza di prospettive concrete per chi sconta una pena senza alcun orizzonte di riduzione o revisione.
Uno degli aspetti più controversi riguarda la mancata applicazione, in molti casi, dei principi di legalità e favor rei in materia di esecuzione penale. In seguito a recenti interventi legislativi o pronunce della Corte Costituzionale, alcuni reati hanno subito modifiche nei limiti edittali di pena. Tuttavia, molti detenuti continuano a scontare condanne calcolate sulla base di norme più severe, ormai superate.
Il principio di retroattività della legge penale più favorevole è un pilastro dello Stato di diritto, sancito dall’art. 25, comma 2, della Costituzione e dall’art. 7 della CEDU. Tuttavia, la sua concreta applicazione in fase esecutiva è spesso ostacolata da inerzie burocratiche, interpretazioni restrittive o dalla mancanza di un meccanismo automatico di revisione
Per un detenuto, sapere che la propria pena non è più proporzionata al reato, e che ciò nonostante non vi sarà alcun intervento correttivo, può rappresentare una forma di tortura psicologica. La giustizia che non sa correggersi diventa vendetta, non rieducazione.
Non si tratta solo di una questione formale o procedurale: la mancata rideterminazione della pena può tradursi in una violazione dei diritti fondamentali della persona, negando ogni possibilità di reinserimento e generando un senso di impotenza che, in alcuni casi, sfocia nel gesto estremo del suicidio.
È urgente che la politica, la magistratura di sorveglianza e l’amministrazione penitenziaria affrontino con determinazione questa doppia emergenza: quella sanitaria e psicologica dei suicidi in carcere e quella giuridica della stagnazione delle pene.
Occorre prevedere meccanismi agili per la rideterminazione automatica delle pene in caso di modifiche legislative, istituire sportelli legali dentro le carceri per assistere i detenuti in queste procedure, e rafforzare il ruolo dei garanti dei detenuti.
Allo stesso tempo, è necessario aumentare il numero di psicologi e educatori, investire in programmi di salute mentale e ridurre drasticamente il sovraffollamento con misure alternative alla detenzione.
Un carcere che non garantisce dignità e giustizia è un carcere che fallisce la sua missione costituzionale. Non può esserci vera sicurezza senza umanità, né vera giustizia senza equità. Affrontare con serietà il dramma dei suicidi in carcere e la mancata rideterminazione delle pene non è solo una questione di legalità, ma di civiltà. |