Il 24 settembre di vent’anni fa era un sabato e Lino Aldrovandi non poteva immaginare che di lì a poche ore la vita di suo figlio Federico sarebbe stata spezzata dalla violenza di quattro poliziotti, condannati in via definitiva nel 2012 a tre anni e sei mesi per omicidio colposo con eccesso colposo nell’uso legittimo delle armi.
Tradotto: due manganelli rotti a furia di botte e soffocamento del ragazzo, appena diciottenne, dopo che gli agenti gli erano montati sulla schiena, schiacciandolo ammanettato contro l’asfalto. La sentenza definitiva però è arrivata dopo che, nei mesi successivi alla tragedia, questura e procura di Ferrara avevano opposto silenzi sempre più imbarazzati e versioni sempre meno credibili ai genitori che cercavano disperatamente di vederci chiaro.
Signor Aldrovandi, lei all’epoca era ispettore di polizia municipale, come ha saputo della morte di suo figlio?
“Alle cinque e mezza di domenica mattina ho visto il suo letto intatto e ho cominciato a preoccuparmi: quando faceva così tardi avvertiva sempre mia moglie, così l’ho svegliata, ma lei non aveva avuto nessun messaggio. Ho cominciato a chiamare il suo cellulare e non rispondeva, così ho telefonato agli ospedali, ma senza risultato. Allora ho chiamato polizia e carabinieri qui a Ferrara e mi sono sentito rispondere “vi faremo sapere”. La disperazione intanto aumentava”.
E poi?
“Alle undici ho visto arrivare a casa un’auto della polizia, scende Nicola, un mio caro amico della Digos, con una faccia… mi ha guardato scuotendo la testa, faticava a trattenere l’emozione. Gli ho detto “è morto?” e lui ha annuito. Sono entrato in un mondo quasi da impazzire, come se mi fosse venuto addosso un treno. Ho chiesto che cosa fosse successo, mi hanno detto che aveva dato di matto, che urlava, che aveva avuto una colluttazione con degli agenti. Per il riconoscimento mi dissero che ci voleva una persona forte, andò mio fratello, che poi mi disse che Federico era in condizioni orribili. L’ho visto ricomposto, sulla fronte aveva stampato un cilindro, come di manganello”.
La versione ufficiale qual era?
“Che si era sentito male, ma addosso aveva 54 lesioni, la distruzione dello scroto, e la procura sosteneva che aveva fatto tutto da solo, che era un drogato. Poi la perizia stabilì che invece per le sue condizioni avrebbe potuto guidare una macchina”.
Come avete reagito lei e sua moglie, Patrizia Moretti?
“All’inizio avevamo fiducia nelle istituzioni, anche se tante cose non tornavano, ma a gennaio 2006 ancora non succedeva niente. Oltre al dolore immenso avevamo la sensazione di essere stati lasciati soli. Allora abbiamo aperto un blog su internet, uno dei primi, con la foto di Federico, raccontando la sua storia. Hanno cominciato a interessarsi i giornalisti, Chi l’ha visto, anche per chiamare a raccolta i testimoni. Alla fine è emerso che quello che ci avevano raccontato era tutto falso”.
Pensa sia stata fatta giustizia con le condanne ai quattro agenti?
“Quanto meno non sono state sentenze miti, ma grazie all’indulto hanno fatto solo sei mesi: Pollastri e Forlani in carcere a Ferrara, Segatto e Pantani ai domiciliari. Poi tutti e quattro sono stati reintegrati in servizio, con incarichi amministrativi, ma io credo che siano di nuovo in giro, in altre città. Quando il procuratore generale della Cassazione li definì “quattro schegge impazzite in preda al delirio” ho pensato che fosse giustissimo e un genitore si dice “benissimo, gli daranno l’ergastolo”, contando che il portare una divisa, secondo me, è un’aggravante. E invece la divisa gliel’hanno ridata…”.
Li ha mai incontrati?
“Luca Pollastri, che un testimone ha detto di aver visto mentre tempestava di calci Federico, mi è capitato di vederlo andando a fare la spesa. Come mi sento? Si metta nei miei panni: ho fatto anche quel lavoro. Ho giurato fedeltà, nonostante siano passati vent’anni la rabbia è sempre grande”.
Questa vicenda ha avuto conseguenze sulla sua vita familiare?
“Ha creato una voragine fra me e mia moglie, ora siamo divorziati. Forse è stato il dolore, dolore contro dolore ha finito per acuirlo. Avrei continuato, ma le persone vanno rispettate, ora vivo nella mia solitudine. L’altro nostro figlio, Stefano, a 14 anni (ne ha 4 meno di Federico, ndr) è dovuto diventare uomo: ha studiato, si è laureato e oggi lavora”.
La morte di suo figlio è servita a qualcosa?
“Temo di no, anzi, ho la vaga sensazione che la situazione sia peggiorata e che, anche con la nuova legge sulle manifestazioni, sia data mano libera alla polizia. Se ricapitasse oggi non so come andrebbe, vedendo come funziona noto che è sempre più difficile, anche perché la giustizia ha costi legali pesanti che un poveraccio non potrebbe permettersi”. |