Le due morti recenti di Elton Bani e Gianluca De Martis, avvenute nei giorni scorsi, hanno riportato alla ribalta del dibattito pubblico la questione relativa alla legittimità dell’utilizzo del Thomas A. Swift electronic rifle, più noto con l’acronimo di Taser, da parte delle forze dell’ordine. Un’arma introdotta per la prima volta dal governo Renzi nel 2014. All’inizio il Taser era stato dato in dotazione alle forze dell’ordine nazionali.
In seguito il suo utilizzo è stato esteso, dal decreto milleproroghe emanato dal governo Draghi, anche alle polizie locali.
I sostenitori dell’utilizzo del Taser fanno proprio il discorso securitario di neutralizzare le persone considerate pericolose, combinandolo con una presunta maggiore efficienza e un supposto minore impatto fisico, enfatizzando una ipotetica neutralizzazione soft. I tragici fatti che le cronache raccontano sono lì a smentirli e suggeriscono due ordini di riflessioni. La prima sul piano delle violazioni dei diritti umani, la seconda sotto il profilo simbolico e delle rappresentazioni collettive.
Malgrado i fautori dell’utilizzo del Taser ne sostengano la sicura efficacia come strumento di deterrenza, già nel 2007, una commissione dell’Onu, ne evidenziava le potenzialità di strumento di tortura, raccomandando di non utilizzarlo.
Anche in Italia, l’ex Garante delle persone private della libertà, Mauro Palma, evidenziava gli aspetti critici, conseguenti all’utilizzo del Taser, nelle sue relazioni al Parlamento. In particolare, si sottolineava come il ricorso a questa arma dovesse consistere in una extrema ratio, successivo ai fallimenti dei tentativi di approccio e di dialogo da parte delle forze dell’ordine. I tragici casi Bani e De Martis riportano testimonianze in cui emerge come un approccio o un dialogo con le vittime non sia stato minimamente cercato.
A vent’anni dalla tragica morte di Federico Aldrovandi, a undici anni dal caso analogo di Riccardo Magherini, affiora in tutta la sua criticità la cronicizzazione di un deficit nella formazione delle forze dell’ordine.
All’interazione, alla mediazione, al dialogo, si continua a preferire l’uso della forza. Che però viene contrabbandato come un approccio soft, dal momento che al manganello si sostituisce una pistola che viene da fuori, dotata di poteri taumaturgici grazie ai ritrovati tecnologici che la caratterizzano. Peccato che gli esiti, vale a dire le morti tragiche e assurde, siano analoghe a quelle dovute all’utilizzo del manganello.
Se da un lato il deficit di formazione non è responsabilità degli agenti e dei militari, dall’altro lato questi dovrebbero essere consapevoli di operare all’interno di una cornice improntata allo Stato di diritto. In particolare, le relazioni del garante, sottolinea la necessità di non utilizzare il Taser in spazi ristretti, per non rischiare di oltrepassare il discrimine, già tenue, tra intervento contenitivo e tortura. Per questo raccomandano di formare adeguatamente all’utilizzo del Taser con tanto di riunioni di debriefing successive al suo uso e la stesura di relazioni scritte da sottoporre al vaglio degli organi ispettivi.
Il problema, tuttavia, permane a livello simbolico. Un esecutivo che fa di legge e ordine la sua cifra e il suo collante, non contempla nel suo glossario parole come formazione e mediazione. Soprattutto, si tratta di risospingere il confine all’indietro. I casi Aldrovandi, Cucchi e Magherini, oltre a ridare dignità alle classi pericolose, avevano portato alla ribalta gli abusi delle forze di polizia, catalizzando l’approvazione della legge sulla tortura. Un percorso che appare come fumo negli occhi per chi non vuole criticare i poliziotti, e preferisce piuttosto raccontare e raccontarsi che esiste un modo soft di reprimere, così da rimuovere i conflitti contemporanei. Fosse un film, lo intitoleremmo «Provincialismo letale». |