18 agosto 2013, un’ordinaria domenica di mezza estate. Fuori dal Meazza, prima di Inter-Cittadella, centinaia di tifosi tentano invano di acquistare un biglietto: famiglie in coda lottano contro quel mostro che è la burocrazia e, dopo un po’, tornano a casa delusi. Qualche ora più tardi, dentro l’Olimpico, centinaia di pseudo-tifosi della Lazio non la smettono di fare buu ai giocatori neri della Juventus, protetti da uno stato di impunità.Ripensando a quei due fotogrammi si rafforza il sospetto: c’è qualcosa che non va nella gestione del pubblico da stadi se, in nome del sacrosanto principio della sicurezza, si finiscono per punire le persone perbene più di quanto non si riesca ad allontanare dai nostri campi quella sparuta minoranza che, ormai impossibilitata ad esercitare la violenza fisica, ripiega su quella verbale. SICUREZZA E SERVIZI — Le statistiche del Viminale testimoniano in modo inconfutabile che gli incidenti, i feriti e l’impiego di polizia all’interno degli stadi sono sensibilmente calati negli ultimi anni. Ma, a questo punto, con una Serie A che cattura solamente 23 mila spettatori medi a partita, lontanissima da Bundesliga (44 mila) e Premier (36 mila), con un calcio italiano che lotta per recuperare l’interesse perduto, è quanto mai necessario semplificare quel percorso, simile il più delle volte a una via crucis, che il tifoso medio deve seguire per arrivare a sedersi sugli spalti. Basta sentire la gente – e lo stesso Osservatorio l’ha fatto nella ricerca C’era una volta l’ultras – per scoprire quanto sia forte l’insofferenza non solo verso la tessera del tifoso ma più in generale per quel complesso di procedure e limitazioni che, spesso, finiscono per scoraggiare chi voglia gustarsi una partita dal vivo. Tanto, c’è sempre la tv… Inutile girarci attorno: recarsi allo stadio è diventata un’impresa, di sicuro più complicata che prendere un treno o andare a teatro. DIFFICOLTÀ — L’origine di tutto sta nel biglietto nominativo, introdotto nel 2005: per acquistarlo serve la carta d’identità. Poi, nel 2010, è arrivata la tessera del tifoso, con un costo supplementare e tutti quei moduli da compilare, obbligatoria per abbonarsi e per andare in trasferta. Se non la si fa, niente partite fuori casa, a meno che non si scelga un settore diverso da quello ospiti. Ma nemmeno ciò è possibile se le autorità di pubblica sicurezza fanno scattare il divieto di acquisto per i residenti nella regione della squadra forestiera. E comunque comprare il tagliando nel giorno della partita proprio non si può. Detto banalmente: il papà che, senza pianificare nulla e in assenza del passepartout della tessera, decide al mattino di portare il figlioletto allo stadio, piuttosto che al cinema, ha scarsissime possibilità di riuscirci. I disagi maggiori, insomma, sono per l’appassionato mordi e fuggi, non fidelizzato, che comunque rappresenta un enorme serbatoio per il movimento: basti pensare ai 22,8 milioni di persone che dichiarano di tifare per una squadra di A secondo le indagini demoscopiche commissionate dalla Lega. Un numero ben superiore alle tessere rilasciate sinora (1,2 milioni). RACCOMANDAZIONI — Lo stesso Osservatorio sa che bisogna fare qualcosa. Anzi, l’ha pure messo nero su bianco con la determinazione dell’8 febbraio 2012. Una raccomandazione, innanzitutto, a sfruttare le possibilità offerte dalle nuove tecnologie “a distanza e in mobilità”. Va incentivato l’acquisto on line dei biglietti, così come avviene per i treni, gli aerei o i concerti, e in particolare il cosiddetto ticketless: ti compri il tagliando sul telefonino ed eviti le code. L’Osservatorio, in quella circostanza, spingeva anche per rivedere, limitatamente ai possessori della card, il divieto di vendita dei biglietti del settore ospiti il giorno della partita. È trascorso un anno e mezzo ma nulla si è fatto. Vogliamo o no riportare la gente negli stadi? |