"La Tessera del Tifoso l’ho portata io in Italia. Nel 2004. Ma il suo contenuto originario è stato stravolto".
Vi dice niente il nome Anthony Weatherill? No, chiaro. E quello di Matt Busby? Sì, dai. È stato il leggendario allenatore del Manchester United. Roba da libri di scuola (dello sport). Il predecessore di Sir Alex Ferguson nel mito mancuniano. Beh, Busby è stato il padrino di battesimo dell’italobritannico Weatherill: «Indovini per chi tifo?». Non prosegua, please. La risposta è scontata, il motivo dell’incontro è un altro. Mister Anthony sostiene di avere le carte in regola. Carte, in tutti i sensi. Dice di poter dimostrare che la "Tessera" tanto pubblicizzata in questi ultimi mesi dal Ministro Maroni è solo un clone. Peggio: è un clone sbagliato. Perché non è la soluzione giusta per il mondo del calcio. Ed è profondamente diversa da quella proposta dal figlioccio di Busby: «Per me, dovrebbe essere una carta dei diritti del tifoso» (ESATTAMENTE!). È il 2004, il calcio non ha ancora conosciuto le sue tragedie: Licursi, Raciti, Gabbo. Anthony Weatherill vende servizi. Il suo cliente migliore è la Fissc, la Federazione dei sostenitori delle squadre di calcio. Weatherill forte dell’esperienza in Francia, dove per nove anni aveva gestito la biglietteria della Ligue 1 e della Ligue 2, si guarda intorno e si accorge che qualcosa non torna.Anzi non c'è. I centri di coordinamento del tifo italiani non navigano nell’oro, sono i più tartassati da decisioni che colpiscono tutti. Indiscriminatamente. Tra cui i loro associati, che sono il motore del calcio. Si pensa ai tifosi solo sotto l’aspetto economico, non hanno voce in capitolo. Non esiste un mezzo, un simbolo che li rappresenti. Weatherill pensa a una "carta di appartenenza" che sia espressione di una comunità, ben salda e con dei principi, quelli dello sport e della passione sportiva. Uno strumento che diventi, nel tempo, una sorta di piazza virtuale dove tutti possano incontrarsi per dare concretezza alla loro appartenenza ad una stessa fede (calcistica) e, nello stesso tempo, al comune destino di tifoso. La "carta di appartenenza" può essere l’idea giusta, purché contenga, come punto di partenza, tutti i valori ideali in cui si riconosce un tifoso. Una tessera sotto molti aspetti avveniristica. Con un sofisticato chip che in breve tempo sarebbe diventato la memoria storica del tifoso. Serve un modello. Occorre che una tifoseria faccia da apripista. Weatherill sceglie quella del Torino. Perché? «Per la storia comune con il Manchester. Entrambe le società sono state colpite da una tragedia aerea». Per il lancio della "Carta del tifoso granata" vengono fatte le cose in grande. Prima, nel 2004, la promozione sulla rivista "Toro News". Poi, a inizio 2005 viene indetta una conferenza stampa. Della carta scrivono e parlano tutti: "La Stampa", "Il Corriere della Sera", la "Rai". Proprio in quello stesso periodo nasce il centro di coordinamento del Torino. Per Weatherill è un’ottima notizia. Gli permette di sviluppare una direzione ben precisa del progetto: «La carta granata era amata, perché veniva considerata un simbolo della loro passione per il Toro. Però, allo stesso tempo, mi ero reso conto che questa stessa passione portava i volontari nei centri di coordinamento a fare le due di notte per riportare i nomi dei loro iscritti sui tagliandi per lo stadio. Chiesi allora a Lottomatica e alle altre società che si occupano di biglietteria in Italia di far sì che con la Carta del Tifoso si potesse entrare dappertutto. Senza più dover compilare nulla». Sembra un’utopia, specie all’epoca: «Nemmeno per sogno. Il meccanismo era facile. Sarebbe bastata una macchinetta in grado di leggere il microchip contactless della nostra carta». Weatherill si muove solo dopo alcuni sondaggi tra i tifosi perché, come ama ricordare, «il cuore della Carta del Tifoso sono i tifosi con le loro esigenze. È bastato chiedere loro quali fossero le questioni a cui tenevano di più». Quello dei biglietti nominativi era solo uno dei problemi. Un altro, per esempio, riguardava l’organizzazione delle trasferte. Questo per farle capire come la mia carta non fosse imposta, ma provenisse dal basso. Dalla base. Dalle richieste dei tifosi stessi». È per questo che, verso la fine del 2006, Weatherill comincia a pensare di dare vita a una sorta di federconsumatori delle curve italiane: «La "Federtifosi"». Non se ne fa più niente, perché in quei giorni la Fissc, la "Federazione italiana sostenitori squadre calcio", si sta facendo conoscere fra il grande pubblico. L’allora ministro dello Sport Giovanna Melandri la convoca per un forum. Weatherill s’incuriosisce. E ha un’altra idea. Perché non sfruttare la carta per consentire alla Fissc, e così pure ai suoi centri di coordinamento del tifo organizzato, di essere economicamente indipendenti? Ok, ma come? «L’unione fa la forza, realizzando politiche comuni alle esigenze di tutti i tifosi, che non sono troppo differenti se si tifa Roma piuttosto che Torino. La carta è di proprietà dei tifosi. Solo quando senti una cosa appartenerti, la usi. La vivi. In più, facendo pagare la tessera. Il 90% del ricavato sarebbe andato ai centri, il resto alla Fissc. Naturalmente, parliamo di costi risibilissimi per l’utente». Weatherill fa solo da tramite con la Fissc, che del progetto è entusiasta. Il 7 luglio 2005, proprio il giorno degli attentati a Londra, in un colloquio privato mister Weatherill illustra la sua carta al sottosegretario all’Interno, Alfredo Mantovano. Che appoggia in tutto e per tutto il progetto. Tanto da suggerirgli di inviare una mail con tutti i documenti all’Osservatorio sulle manifestazioni sportive. Dice Weatherill: «Sono rispettoso delle istituzioni. Pensavo che sarebbe stato giusto mostrare loro cosa avevo in mente e cosa avremmo voluto fare. Speravo in un confronto con il Viminale». Invece, niente. I contenuti delle due tessere, quella della Fissc e quella del Viminale, sono diametralmente opposti (capito? SONO DIAMETRALMENTE OPPOSTI!). Per contenuti tecnici, innanzitutto. Spiega Morelli: «In Italia, ogni tornello monta un sistema di lettura che riconosce un determinato chip RFID. In assenza di direttive chiare, ogni società si è affidata ad un proprio consulente, ad una propria soluzione tecnologica. Il risultato è che il chip montato sui tornelli dell’Olimpico, nello specifico il 14443 A, è differente da quello montato a San Siro, il 15693. Inoltre, in altri stadi ne esiste anche un terzo, il 14443B. Favoloso. Mi domando, allora: se la tessera del Viminale nasce per consentire le trasferte, ma attualmente va bene per l’Olimpico e non per San Siro, un romanista che va a Milano che ci fa con la sua tessera?». Le strade si dividono per i contenuti - definiamoli così - morali delle due tessere. Per Weatherill e Morelli, la carta del Ministero dell’Interno è un non sense: «Cominciamo con il dire - spiega Weatherill - che i tifosi non sono stati interpellati per sapere come sarebbe dovuta essere. Al Viminale interessava solo fare una summa divisiotra buoni e cattivi. Serviva un’alternativa al biglietto nominativo. Vede, con la loro tessera il sistema riconosce subito chi può entrare allo stadio e chi no. Io mi rifiuto di ragionare così. Di pensare che ogni tifoso sia un potenziale teppista. Mi chiedo perché uno che è stato condannato per un reato da stadio cinque anni prima non possa avere la carta (già: perché per quanto riguarda il calcio siamo in uno Stato di polizia). Dicono: "Così fidelizziamo i tifosi". Ma che vuol dire? I tifosi sono fedeli dalla nascita alla propria squadra del cuore. Al contrario, noi pensiamo a una carta di appartenenza, che offra anche - e sottolineo "anche" - la possibilità di entrare con più comodità allo stadio. Ma non nasce per quello. E poi non è obbligatoria. Non è che, se non ce l’hai, sei meno tifoso degli altri. Non solo. Affrontiamo il nodo dei dati sensibili. La Carta del Tifoso Srl ha speso un sacco di soldi per dotare la Fissc di un database. Al di fuori della federazione dei tifosi, i nominativi dei titolari delle tessere sarebbero potuti essere controllati solo dalla polizia, qualora ne avesse avuto bisogno. Mentre le società di biglietteria non ne sarebbero mai entrate in possesso. Avrebbero avuto solo i codici». Non è solo un scontro ideologico. Nel 2007 il "figlioccio" di Busby registra marchi e brevetti: il 26 giugno quello per la Tessera del Tifoso, il 18 dicembre quello per la Carta del Tifoso. Poi, cede tutto alla "Carta del tifoso Srl", che porta avanti il progetto e di cui è responsabile Maurizio Morelli di Popolo, nipote di uno dei fondatori del Toro. Strano? Beh, pensate che il presidente della Carta del Tifoso Srl è Paolo Valentini, nipote del conte Marini Dettina, storico patron della Roma negli anni ’60. Tornando alla questione legale, la Tessera del Tifoso è un marchio registrato. Compass, Banca Intesa e Inter erano state diffidate dal farne uso. Tutto inutile, anche qui. In settimana scatteranno le azioni legali. Weatherill è contrariato: «Se l’avessero chiamata Carta della Lega, non avrei obiettato nulla. Ma chiamarla proprio così, no. Hanno progettato una tessera che non è per i tifosi. Va bene. Ma non la chiamino "Tessera" o "Carta del Tifoso", perché non possono. Abbiamo spedito le diffide, le hanno ignorate. La vera "Tessera del Tifoso" è dei tifosi, e voglio tutelarla. Costi quel che costi». Weatherill non vuole buttare all’aria il lavoro di anni: «Primo, per la profonda convinzione che una Carta del Tifoso nata sotto l’egida del Ministero dell’Interno non possa funzionare. I tifosi la vedranno sempre come un tentativo di schedatura. Secondo, perché penso che queste carte finiranno per diventare dei semplici sostitutivi del biglietto nominativo con propaggini verso il mercato del credito a consumo. Questa seconda ragione è quasi peggiore della prima. Così, il tifoso diventa un mero cliente. Un cliente che deve essere spinto a consumare ad ogni costo. Ma il tifoso non è un cliente. Bensì, il testimone di una storia e di una passione».
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