Quando comincia il calcio “moderno”? E dove finisce quello “romantico”? Kaka che si riduce l’ingaggio da 10 a 4 milioni per tornare al Milan è calcio romantico? E gli eventi di Salernitana-Nocerina fanno parte di quello moderno? Le domande non sono retoriche, chiarirsi sarebbe utile. Nella lingua comune, una certa sloganistica onnicomprensiva deborda in tutti gli ambiti del discorso pubblico, anche quelli teoricamente più elevati, figurarsi dunque se ci si può meravigliare che questo avvenga nei discorsi del pallone. Certo, la confusione è grande. La perdita di senso, per progressivo svuotamento di parole e concetti, incombe. Inoltre la realtà, come ovvio, incalza e propone fatti e circostanze la cui lettura richiederebbe strumenti adeguati e vivacità culturale, per poter giungere a posizioni nette, non pacificate, da tradurre poi in scelte concrete. Comportamenti consapevoli, specie se collettivi. Ma non solo siamo lontanissimi da tutto questo, non conosciamo nemmeno le domande. Nel 1934 l’Italia vinse il suo primo mondiale in casa, in un torneo manipolato dal regime, di cuisi ricorda in particolare lo scandalo dei quarti di finale contro la Spagna. Tre gol annullati agli spagnoli, una mattanza in campo. Alcuni riportano che Mussolini stesso avesse selezionato gli arbitri, e che intervenne per impedire alla Spagna di schierare il leggendario portiere Ricardo Zamora. Dieci anni prima, nel ’27, il Torino aveva vinto lo scudetto a seguito di una partita truccata, un derby per giunta, e il Bologna aveva chiuso al secondo posto. Leandro Arpinati, a un tempo presidente della Federcalcio e podestà fascista di Bologna, decise di istituire un’inchiesta (pilotata) che determinò la revoca dello scudetto granata. Era moderno quel calcio? Cinquant’anni fa i presidenti delle società di serie A erano battezzati dalla stampa nazionale come i “ricchi scemi”. I bilanci delle squadre erano sempre in rosso e loro ripianavano ogni anno le perdite di quel giocattolo costoso e in perenne riparazione. Sciocchi. Si trattava degli Agnelli, dei Moratti, dei Lauro, che sul pallone edificava un intero ciclo politico da viceré di Napoli e della destra nazionale filomonarchica. Allora il pallone apriva porte, procurava incontri, affari. Favoriva, anticipava e affiancava la nascita di quel ‘capitalismo relazionale’ di cui oggi molti discutono come caratteristica o piaga della nazione. Era il pallone di Rivera, Mazzola e Sivori. Era moderno quel calcio? Romantico? Erano davvero ‘scemi’ quei ricchi? Oggi ci sono gli Agnelli, i Moratti, i… Berlusconi. È un altro calcio, è tutto cambiato. Nel 1964 uno dei primi scandali di doping portò a un epico e feroce scontro tra Bologna e Internazionale, con penalizzazioni date e poi revocate, che sfociarono in violenze e blocchi stradali, e una polemica andata avanti per anni. Almeno una volta il Napoli fu retrocesso in B per via delle invasioni di campo dei suoi tifosi nello stadio Ascarelli, al Vomero. Bei tempiquelli, il mito, la leggenda. Il calcio di una volta. Eppure è vero, molte cose sono cambiate. Il fatto è che semplificare non ci aiuta a capire. E Joao Havelange era criminale quanto Joseph Blatter. Il calcio, oltre ad essere un gioco meraviglioso, è anche contraddizione. Sportiva, culturale, sociale, politica. Contiene l’alto e il basso, il barrio e la finanza, Blatter e i bambini, Messi e Doni. È per questo che è così simile ai territori in cui alberga, ne riproduce i nodi irrisolti, le qualità, le opacità palesi oppure occulte. È uno dei motivi per cui lo amiamo.Se non si parte da qui è difficile cominciare a ragionare. Per necessarie esigenze di sintesi è giusto procedere in forma schematica con alcuni punti che consideriamo fermi, nei limiti della nostra visione, e che elenchiamo di seguito. La struttura apicale del nostro sistema calcio – impianti, dirigenze, governo della Lega e della Federazione, organi giurisdizionali – versa in condizioni disastrose e retrograde. Le politiche della sicurezza varate, sintetizzabili nella strategia della Tessera del Tifoso, si rivelano fallimentari e piene di contraddizioni logiche e giuridiche, come gli eventi di Salerno e le decisioni di prefetti e questori dimostrano nel modo più ampio. Le organizzazioni dei tifosi mostrano, in una sconfortante quantità di casi, la medesima arretratezza e miopia dei soggetti menzionati al punto 1. Andare allo stadio a vedersi una cazzo di partita, per uno qualunque è diventato un inferno kafkiano di obblighi psico-burocratici. Per avanzare, almeno di un pochino, ogni discorso critico deve essere anche autocritico. Se no non si va da nessuna parte. Sarebbe dunque, davvero arrivato il momento di sgomberare il campo da diversi equivoci, di infrangere alcuni tabù decennali, di guardarsi con occhi un po’ nuovi per immaginare prospettive più avanzate. Almeno provare. Palloni e croci sulla spiaggia, Brasile, 2013 Equivoci Cosa deve fare un Club professionistico? Cosa chiediamo alla Società a cui teniamo e ai suoi dirigenti? Sono i risultati sul campo l’unico parametro, la nostra richiesta fondamentale? Esiste dell’altro? Può esistere dell’altro, o si tratta di inutili fantasie? Ha senso ipotizzare un ruolo sociale, con conseguenti obblighi, per le società del calcio professionistico e semiprofessionistico? Per quanto ci riguarda crediamo di sì, e molto anche. Al club che seguo e amo da sempre chiedo. Alla squadra, che mi faccia divertire, facendo sempre del suo meglio, dando quello che ha, senza risparmiarsi. È ovvio che preferisco vederla vincere, ma più di tutto gioco e generosità in campo mi appassionano. Alla società e ai suoi dirigenti, che non mi facciano vergognare di sostenerli, e più di ogni altra cosa che investano nel territorio di appartenenza, in particolare dove più forte è il disagio, in strutture sportive e sociali per l’inclusione e lo sviluppo delle potenzialità dei giovani locali. Inoltre chiedo una pianificazione non isterica delle strategie del club e della squadra. Alla tifoseria organizzata, che sostenga la squadra con calore, passione, e anche qualche bella coreografia ben studiata. Che dia elettricità ai nostri, e un po’ di miedo escenico agli avversari. Ma poi chiedo anche, oggi, nel 2013, dentro questa crisi, di essere attenti ai territori da cui provengono, ai loro bisogni reali anche fuori dal pallone. Che non pretendano biglietti e merchandising, ma investimenti nei quartieri e per i ragazzi. A tutti gli altri tifosi, che quando vanno allo stadio si portino la ragazza o i figli. O tutti e due, o tre… Tabù È possibile provare a fare ragionamenti laici e talvolta autocritici sulle questioni che riguardano tifoserie organizzate e ultras? Si può trattare il fenomeno nella sua complessità e non come un unicum totalizzante, guardandoci dentro e distinguendo circostanze e comportamenti? Si possono fare domande tipo: Qual è la credibilità di soggetti che espongono altisonanti striscioni e dichiarazioni contro il ‘calcio moderno’ schiavo del business e poi se la squadra non va in Champions piantano enormi casini e inscenano contestazioni nei campi di allenamento? Siamo d’accordo nel dire che a prescindere dalle altrui scelte, l’assurda pantomima messa in scena a Salerno, è una cosa che non si può guardare comunque la si pensi? Si può dire che la “strategia dei cori razzial-territoriali” di parecchie curve è una demenziale cazzata fascista? Che vi sono diverse opacità, dietro le quali girano parecchi soldi e svariati interessi politico-criminali? E infine: è possibile oggi, nel 2013, dentro questa crisi, che l’orizzonte dei soggetti del tifo organizzato sia composto esclusivamente dalle forze dell’ordine e dallo Stato? Che la società e i territori da cui provengono non abbiano alcuna importanza? Che si faccia a pacche con gli sbirri ogni domenica, quando dal lunedì al sabato i propri vicini di casa non riescono a svoltare la giornata o sono sotto sfratto senza che nulla accada? Sono un infame, a porre tali interrogativi? È da infami pensare a un ruolo propositivo per le realtà del tifo organizzato? Prospettive Sarebbe bello, ancorché utopico dato il contesto, poter ipotizzare la nascita dal basso di una bozza di riforma del calcio professionistico che metta al primo posto la responsabilità sociale dei club, come vincolo per ottenere la licenza di partecipazione ai campionati. La richiesta di un investimento annuale pari a un 5 o 10% del fatturato sui territori di riferimento, per l’inclusione e contro il disagio, attraverso la pratica sportiva e la promozione delle realtà esistenti in quartieri e periferie di centri urbani e metropoli. Sarebbe bello fare casino per imporre, a club e istituzioni, la realizzazione di impianti e strutture, frequentabili e accessibili, sia per la fruizione che la pratica sportiva. Li farei volentieri dei blocchi stradali. E se il caso anche degli scontri, stile Confederation’s Cup. O per un giardino a Istanbul. Perché non conta tanto se fai a pacche. Conta il per cosa. Spero che ci siamo capiti. |