La storia che sto per raccontare è triste, avvilente, urtante; eppure, nella sua sinistra negatività, se si avrà voglia di seguirmi fino in fondo, essa può risultare rincuorante. Almeno dal punto di vista basilare per una società civile: quello che afferma il principio di verità e giustizia.. E' la storia di un ragazzo, bello è dir poco a guardarlo nelle foto dei giornali, fermato da una pattuglia della polizia all’alba di due anni fa presso casa, a Ferrara, e assurdamente morto in quella circostanza. Un ragazzo di diciotto anni compiuti da un mese, studente in un istituto per periti elettrotecnici, alto, riccioli neri, sportivo, disposto, per non gravare troppo sulla famiglia, a distribuire nel tempo libero pizze in giro per la città. Un confortante esempio di gioventù, in questi nostri giorni di disperato bisogno di futuro. I francobolli all’Lsd Certo, Federico Aldrovandi, la sera usciva con gli amici e come molti dei suoi coetanei, giusto per non essere da meno, non mancava d’impasticcarsi. Quella notte, in trasferta a Bologna, dove aveva ballato in un centro sociale, pare avesse leccato - così riferiscono i cronisti - un paio di francobolli all’Lsd, oppure assunto dell’ecstasy. Di ritorno in auto a Ferrara già oltre le 5, si era fatto lasciare dagli amici nei pressi dell’ippodromo, piuttosto distante da casa sua. Dicono facesse sempre così, che preferisse andare un po’ a piedi nella fresca aria di fine notte, forse per smaltire gli ultimi effetti dello stupefacente. Quella mattina, era il 25 settembre 2005, una domenica, Federico stava dunque andando verso casa. Ma è conveniente usare il condizionale perché tutto, da quel momento, è oscuro, indecifrabile, contraddittorio, per certi versi irreale. Secondo quanto dichiarato in un primo tempo dai poliziotti che intervennero, il ragazzo dava in escandescenze, sbattendo la testa contro i pali della luce. Sarebbe stata una donna, alle 5.47, a chiamare il 112, il centralino del pronto intervento dei carabinieri. Ma i carabinieri non sarebbero intervenuti perché quella zona di Ferrara sarebbe di competenza della polizia (immaginate un caso d’urgenza? Voi che telefonate e dall’altra parte vi dicono che non è di pertinenza dei carabinieri ma della polizia? No, non lo si può credere, ma questa è un’altra storia…). Chiarite le competenze, intervenne, dunque, una pattuglia della polizia. Due agenti che — è la versione della Questura — si sarebbero trovati davanti a un energumeno in preda a chissà quali furori, scalciante e urlante. Dico subito che Federico Aldrovanti risultò essere cintura marrone di karate, particolare aggravante per lui, ma che, viste come sono andate le cose quella mattina, ora appare soltanto grottesco. Arrivarono, chiamati, i rinforzi: un’altra volante dalla quale scesero altri due poliziotti, uno dei quali donna. Il ragazzo - sempre dalle dichiarazioni degli agenti - si sarebbe comportato da indemoniato, sferrando calci, urlando. Alla fine, dopo lunga colluttazione, sarebbe stato messo faccia a terra e ammanettato. Basta? Sì, basta. Ma lo studente, «vestito come uno dei centri sociali», non parla più, non si muove più. Sembra svenuto o addirittura - ma chi lo avrebbe detto? - morto. La sirena dell’ambulanza E' ormai giorno fatto quando la sirena di un’ambulanza della Croce Rossa sveglia via dell'Ippodromo, in un tranquillo quartiere della tranquillissima Ferrara. Il medico, la dottoressa Barbara Fogli, e l’infermiere Gerardo Coppa, tentano di «svegliare» quel povero ragazzo con il defibrillatore, poi tentano l’impossibile iniettandogli adrenalina in vena. Ma non c’è più niente da fare. Federico è morto. Ma perché quelle manette? Chiede la dottoressa. E perché il ragazzo presenta ferite al volto ed è insanguinato? E perché (ma questo se lo chiede chi scrive) il cellulare di quel povero cristo continua a squillare e nessuno dei poliziotti lo prende per rispondere? Ma è una domanda ingenua. Il perché è facilmente immaginabile. A chiamare sarà qualcuno della famiglia del ragazzo, forse la madre: e cosa si può rispondere in quei momenti? Cosa possono dire, quei poliziotti, prima di avere messo a posto il rapporto e chiuso quel maledetto caso? Quel corpo a terra, ora coperto con un lenzuolo, e il telefonino che continua a squillare. Ed è la madre di Federico a chiamare, a intervalli sempre più ravvicinati: è il particolare più agghiacciante della storia che sto ricostruendo, questo; un particolare su cui ritorneremo, perché importantissimo da un punto di vista simbolico. Il cadavere viene portato all’obitorio. Un poliziotto si reca in casa Aldrovandi. La madre di Federico, Patrizia Moretti, quarantasette anni, impiegata comunale, accoglie la notizia come può farlo qualunque madre. Si accascia e ascolta inebetita: suo figlio è morto perché era drogato, si è fatto male da solo, sferrando testate contro i pali della luce. Abbiamo fatto di tutto, ma non lo abbiamo potuto fermare. Ci dispiace. Siamo a disposizione… Lì per lì, la signora Aldrovandi non ha granché da dire. Si accontenta della versione del poliziotto. Perché non dovrebbe? E, del resto, perché la polizia dovrebbe uccidere un ragazzo di diciotto anni, disarmato, incensurato, forse istupidito, questo sì, da una dose di quella maledetta roba? Prima dei funerali, il corpo nella cassa, i genitori vogliono vedere per l’ultima volta Federico. Si avvicinano, guardano e inorridiscono. Non sembra lui, quel morto. Il volto è tumefatto, sfigurato, e sui polsi quei terribili segni lasciati dalle manette. «No, non può essere stato lui a ridursi in questo modo. Così come non può essere stata la droga a uccidere mio figlio», continuerà a ripetere, da quel momento, la signora Patrizia. E con il marito Lino, cinquantun anni, ispettore dei vigili urbani nel vicino comune di Argenta, intraprende una battaglia mediatica che porterà a far riaprire il caso. Si affida a un blog, la madre di Federico, e subito il popolo di Internet si mobilita. Nasce un «Comitato verità per Aldro» (così era chiamato dagli amici Federico Aldrovandi); cominciano i sit-in e le fiaccolate con gli striscioni che chiedono «giustizia». E spuntano i testimoni. Una donna del Camerun che, con il figlio di quindici anni, abita al primo piano di una palazzina di via Ippodromo, dice di avere visto gli agenti picchiare un ragazzo. Aveva sentito dei rumori strani, quella mattina; poi ad allarmarla erano stati i lampeggianti accesi delle volanti. Anne Marie Tsague, trentacinque anni, dichiara di aver visto a terra «quel giovane» mentre gli agenti «lo prendevano a calci». Spiega di non aver parlato prima perché il suo permesso di soggiorno in Italia sarebbe scaduto di lì a poco e che perciò temeva di mettersi nei guai. Avrebbe detto tutto, in confessione, a un prete (don Bedin, lo stesso sacerdote che partecipa ai sit-in degli amici di Federico). «Lui mi ha convinto a non aver paura — dirà Anne Marie — Così ho deciso di parlare. E sono contenta perché altrimenti sarei stata male». Ma, com'è prevedibile in casi del genere, salteranno fuori anche i testimoni bugiardi, i mitomani. Un tale di cui, qui, è meglio tacere il nome, chiama durante la trasmissione televisiva Chi l’ha visto?. Sostiene di avere assistito alla tragica colluttazione. Secondo la sua «testimonianza », gli agenti avrebbero picchiato duramente «quel ragazzo». Davanti al magistrato, l’uomo si rimangerà tutto. «Ho mentito — dirà — Non ho visto niente. Non so perché l’ho fatto ». La mobilitazione a favore di Federico ormai dilaga. E non soltanto a Ferrara. Negli stadi di tutta Italia spuntano striscioni con richieste di verità sulla sua morte. Deputati di Rifondazione e dei Verdi presentano un’interrogazione parlamentare. Il presidente della Camera riceve i genitori di Federico, accompagnati dal figlio loro rimasto, Stefano, quattordici anni. E a lui che, a fine conversazione, Fausto Bertinotti si rivolge. «Ci sono tante persone che lavorano perché questo mondo sia più giusto, onesto e positivo», dice il presidente della Camera. E con foga aggiunge: «Non lo dimenticare mai». Ed è vero. Magari non saranno così tante le persone che lavorano perché questo mondo sia più giusto, ma di lì a poco il nuovo questore di Ferrara, Luigi Savina, con la collaborazione di un ispettore della Digos, Nicola Solito, che non ha mai creduto alla versione ufficiale sulla morte di Federico, rintraccia importanti reperti scandalosamente rimasti fuori dagli atti dell’inchiesta. Sono le registrazioni originali delle telefonate tra gli agenti intervenuti quella mattina in via Ippodromo e la centrale operativa. Confrontati con quelle allegate agli atti, ci si rende conto che vi sono delle differenze sostanziali. Ma ci sono anche due manganelli rotti (rotti!) e tamponi imbevuti di sangue. La svolta nelle indagini sembra dar ragione ai periti della famiglia, i quali hanno sempre sostenuto che Federico è morto per asfissia provocata da una prolungata compressione toracica. Detto in parole povere, al ragazzo, schiacciato a terra per poter essere ammanettato, mancò il respiro fino a cessare di vivere. «Federico èmorto per anossia postulare, che è più o meno come morire crocifissi», è il commento della signora Aldrovandi, che ormai si è fatta una cultura in fatto di medicina legale. I quattro agenti, che in precedenza erano stati iscritti nel registro degli indagati per omicidio preterintenzionale, il 20 giugno 2007, su richiesta del pubblico ministero Nicola Proto, vengono rinviati a giudizio per omicidio colposo. Cambia il capo d’imputazione, ma le accuse sono gravi, perché ai poliziotti viene contestato l’eccesso colposo e il colpevole ritardo con il quale fu chiamata l’ambulanza. «Finalmente, dopo 633 giorni di silenzi, menzogne, assenze, la giustizia può iniziare il suo corso. E lo Stato punire i suoi servitori, se hanno sbagliato», scrive l’inviato della Stampa, Bruno Ventavoli. Già, i servitori dello Stato. Ora sui giornali escono i loro nomi: Paolo Forlani, Monica Segatto, Enzo Pontani, Luca Pollastri. Il più giovane ha trentotto anni, il più anziano quarantasette. Sui muri alcune scritte li insultano. Al processo saranno guardati con disprezzo. Perché non hanno parlato subito? Perché, quella mattina hanno lasciato a terra per così tanto tempo quel ragazzo, prima di chiamare la Croce Rossa? Perché?… Poveri diavoli anche loro. Vengono in mente Pasolini e quei suoi imprevedibili versi a favore di quei poliziotti che, a Roma, si trovarono a fronteggiare gli studenti nei pressi della facoltà di architettura. Era il 1968: «Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte coi poliziotti, io simpatizzavo coi poliziotti! Perché i poliziotti sono figli di poveri. Vengono da periferie, contadine o urbane che siano… E poi, guardateli come li vestono: come pagliacci, con quella stoffa ruvida, che puzza di rancio fureria e popolo. Peggio di tutto, naturalmente, è lo stato psicologico cui sono ridotti…». Guai a un ragazzo che, una mattina all’alba, incappa in una pattuglia di agenti stanchi, stufi, malpagati. Questo lo penso e lo dico, proprio perché mi sono ricordato di quei versi, appartenenti a un passato ormai lontano, di Pasolini. E forse non sono il solo, perché sembra che ad aver pensato la stessa cosa (non so se ricordando anche quei versi di Pasolini) siano stati anche i due periti nominati dal giudice per le indagini preliminari della Procura ferrarese, Maria Silvia Giorgi. Il referto da loro compilato è, infatti, un capolavoro di equilibrismo compromissorio, anche se pesca da esperienze statunitensi. La perizia addebita la morte di Federico alla «excited delirium sindrome». Sul Manifesto del 12 novembre 2006, rifacendosi agli autori americani che hanno coniato il termine, si tenta una spiegazione: «In pratica, durante una colluttazione, da una parte aumenta l’adrenalina che fa correre il cuore, dall’altra - se il soggetto ha assunto droghe - può contemporaneamente verificarsi un aumento di altri neurotrasmettitori come la serotonina. Finito lo sforzo della colluttazione, si verifica un calo del potassio plasmatico, e si entra in una fase pericolosa, nella quale tipicamente si verificano queste morti altrimenti non spiegabili». Il sopralluogo Del resto, secondo i due periti italiani, è da escludere che la droga assunta da Federico possa avere avuto «un ruolo causale o concausale nell’evento», così come, a parere loro, i traumi subiti dallo stesso ragazzo «in realtà sono da considerare modesti e non potevano causarne il decesso». Come dire: Federico è morto a causa di una sfortunata e imprevedibile concatenazione di circostanze. E questo salverebbe tutto: i poliziotti e la stessa memoria dello sfortunato ragazzo, il quale non avrebbe preso droghe tali da morirne. Vedremo come andrà a finire il processo, attualmente alle sue battute iniziali. Nell’attesa, e per meglio raccontare questa storia, mi sono recato a Ferrara per un sopralluogo, come si dice in gergo poliziesco ma anche giornalistico. Ho rivisto questa civile città dove si va in bicicletta senza fretta, dove non vi è traccia d’immondizia per le strade, dove il verde dei giardini (quello dei Finzi Contini nel romanzo di Giorio Bassani e nel successivo film di Vittorio De Sica) elegantemente caratterizza quest’angolo d'Italia fiero delle sue tradizioni e della sua nobiltà storica. Ho rivisto il castello degli Estensi e, di fronte ad esso, la statua ammonitrice di Savonarola che a Ferrara nacque e che «dei vizi e dei tiranni flagellatore», fu impiccato e arso al rogo a Firenze. Ho visto una foto di Federico Aldrovandi lasciata lì, dove morì quella mattina, mentre il suo cellulare squillava. C’è anche una lettera accanto e, in una bottiglia di birra vuota, un mazzo di fiori freschi. Mi sono guardato in giro e la pace di quel luogo, qualcosa di troppo simile all’indifferenza, mi è sembrata di colpo insopportabile. Quel telefonino! Continua a suonare e nessuno che risponda… Una madre che cerca il figlio in un’alba di settembre, in una città dove madri e figli non sono ancora nemici o estranei l'uno all'altra. Suona e suona quel cellulare. E nessuno risponde. Quel trillo, che assomiglia a un motivo rock, non mi abbandona. Non so perché, ma comincio a scalciare, a dare calci a vuoto, come faceva, quella mattina, Federico. Per fortuna, in quel momento, non passa alcuna volante della polizia, e posso tornarmene, indenne, alla stazione di Ferrara.
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