Non sappiamo quale reato avesse commesso Dioune Sergigme Shoiibou, il trentenne senegalese morto alcuni giorni fa nel carcere Mammagialla a Viterbo. Sappiamo che gli avevano dato sei mesi di pena. Non doveva essere un efferato criminale, non doveva essere troppo pericoloso per la nostra società, non doveva avere motivi di alta sicurezza ostativi nei confronti di un suo soggiorno di cura esterno al carcere. Aveva avuto un ematoma al cervello, il ragazzo, per rimuovere il quale era stata necessaria un’operazione che lo aveva privato di parte della calotta cranica. Non è facile andarsene in giro con mezza testa. Non è facile vivere in cella, dove i soccorsi sono lenti e parziali, sentendosi il cervello senza protezione. Peggio che andare in moto a duecento all’ora senza casco. Fatto sta che Dioune si è sdraiato sul letto e non si è più alzato. Si dice che sul suo corpo non si siano visti segni di violenze. Le cause del decesso saranno medici legali e magistrati a stabilirle. Quegli stessi magistrati che, per un reato bagatellare, hanno tenuto in carcere un uomo con il cranio rotto. Eppure le leggi ci sono. C’è il rinvio dell’esecuzione della pena (art. 147 comma due del codice penale), c’è la detenzione domiciliare a casa o in luogo di cura (art. 47-ter dell’ordinamento penitenziario), ci sono molte possibilità tra le maglie delle norme. Se solo si volessero applicare. Ma oramai pare che i magistrati che fanno politica siano solo quelli che si schierano pubblicamente contro le nefandezze di Berlusconi, e che tutti gli altri si trascinino con stanchezza utilizzando solo le procedure che creano loro meno responsabilità. Sarebbe bello che la magistratura scegliesse di farsi scudo non solo contro i potenti ma anche a difesa dei deboli. Si fa alta politica e si fa alta società salvando dalla morte un poveraccio che è finito per disgrazia in una delle nostre carceri. |