Parla il ministro: si è urlato più per Guantanamo che per Genova. Per accertare la verità meglio affidarsi ai giudici che alle commissioni parlamentari
ROMA - "Bolzaneto è una gran brutta storia..." Giuliano Amato, ministro dell'Interno, non si lascia nemmeno porre la domanda. Ripete ancora: "È una bruttissima storia". È un'opinione condivisa che sia un gran brutta storia, meno condivise sono le ragioni del perché sia potuto accadere. Qual è la sua opinione? "Mi deve consentire un ricordo personale. Tra i miei primi libri c'è Individuo e autorità nella disciplina della libertà personale. C'era, ricordo, un capitolo sulla tortura dove ne elencavo anche le tecniche. Era il 1968. In quell'Italia pre-pasoliniana, negli anni cinquanta/sessanta, ci sforzavamo di correggere un'interpretazione riduttiva dei principi costituzionali che sentivamo inespressi in una cultura dello Stato non ancora consapevole di dover essere al servizio del cittadino. Quarant'anni dopo, dover prendere atto che, anche se per un breve stagione, siamo tornati là da dove ci siamo mossi è dura da accettare". Se capisco bene, è dura da accettare che ancora oggi ci siano servitori dello Stato che hanno dimostrato di disprezzare la disciplina costituzionale della libertà personale. Allora devo chiederle: come e chi forma questi uomini? È nella loro formazione il problema? "Guardi, io da ministro ho capito che le nostre scuole di polizia hanno processi di formazione che creano tra le migliori professionalità del mondo. Va però detto che è una professione che attira anche gli "istintivamente Rambo". Non ce ne dobbiamo meravigliare. Come non ci dobbiamo sorprendere se, in una situazione di tensione, magari alla 14esima ora del servizio in piazza e dopo ripetuti insulti e lanci di oggetti, ci sia chi non controlla il suo istinto di reazione". Forse, e non tutti saranno d'accordo, questo può giustificare le violenze nelle strade di Genova, ma non quel che è accaduto alla Diaz. Tantomeno quel che è successo nella caserma di Bolzaneto, luogo chiuso, dove non c'era alcuna emergenza, nessuna minaccia. "Infatti per la Diaz e Bolzaneto si va al di là di ogni capacità di comprensione. Osservo che questo è vero soprattutto per Bolzaneto dove più che la polizia, c'era soprattutto la polizia penitenziaria che non doveva fare i conti con la pressione della piazza e che, custodendo persone assoggettate, dovrebbe guardarsi dall'abuso di autorità, dovrebbe saper rispettare la dignità umana. Come è stato possibile, dunque? Posso soltanto pensare che bisognerà guardare ulteriormente ai processi di formazione, selezione e avanzamento del personale. Il tema del rispetto della dignità umana è una questione che ho posto ripetutamente nei miei interventi nelle scuole di polizia ricordando che, se è forse agevole un comportamento corretto nei confronti di un bianco con giacca e cravatta, l'obbligo deve essere avvertito ancor di più quando si ha a che fare con disgraziati che possono scatenare quel particolare e violento rapporto che si crea tra il superiore e l'inferiore. So di che cosa si tratta. Sono diventato socialista in una corsia d'ospedale dove gli infermieri e i medici davano il lei ai signori e il tu a mio nonno. Non è un problema irrilevante, però, la disciplina giuridica. Non possiamo giudicare quei comportamenti inumani e vessatori semplicemente come violenza privata o abuso d'ufficio. È qualcosa di più. Deve esserci una severità maggiore quando si esercita violenza contro chi è assoggettato al tuo potere (Cenerentola si è svegliata! n.d.L.). Intendiamoci: spesso abbiamo la tentazione di risolvere i problemi di ordine pubblico, sicurezza, criminalità con un inasprimento delle pene. E ho detto più volte che inasprire le pene non sempre aiuta a risolvere i problemi (Infatti la Legge Amato che ha fatto proprio lui non ha mica inasprito le pene!!!! Roba da pazzi!!!! n.d.L.). In questo caso - nel caso delle violenze inflitte a chi è assoggettato a un potere - aggravare non tanto le pene ma il tipo di reato è giusto e necessario". Non aiuta a rimarginare la ferita di Genova la promozione dei funzionari coinvolti nelle violenze. "Il procedimento disciplinare può seguire l'esito del processo penale con sentenza passata in giudicato. Prima della sentenza penale, è possibile sospendere un funzionario dal servizio soltanto se accusato di alcuni gravi reati, come la collusione con un'associazione mafiosa. Qui, però, davanti a reati trattati come abuso d'ufficio o violenza privata ciò è impossibile. Altro sarebbe il discorso se esistesse una norma che punisse espressamente gli atti di tortura o i comportamenti crudeli e disumani, che ritengo possano essere parificati, per gravità, alla collusione mafiosa". Capisco, ma c'è una differenza tra non sospendere e promuovere. "È vero, ma c'è chi è stato promosso dopo un concorso. Chi ha lavorato all'arresto di Bernardo Provenzano e aveva le carte e i tempi giusti per esserlo. E lo dico anche se queste promozioni sono precedenti al mio incarico. Credo che regole e garanzie debbano valere nei confronti di tutti, per chi ha subito le violenze e anche per chi è accusato di essere il presunto violento. Non nego che esiste quel che potremmo definire "un margine di responsabilità oggettiva" che dovrebbe implicare di mettersi da parte, come accade a chi è accusato di reati molto gravi. Diciamo che ritengo questo atteggiamento una "collaborazione rafforzata" con la giustizia. Sono rimasto coinvolto in fatti gravi. Ritengo di non aver colpe e responsabilità. Mi faccio, però, da parte nell'interesse dell'istituzione che rappresento. Se sono poi assolto, ho pagato senza ragione un prezzo. Può accadere. Accade". Molti ritengono che il capo della polizia all'epoca del G8, Gianni De Gennaro, avrebbe dovuto fare quel passo indietro di cui lei parla, sentire sulle spalle una responsabilità oggettiva. È un fatto che la permanenza di De Gennaro al vertice della Dipartimento della sicurezza pubblica non abbia aiutato a scolorire le polemiche, a sciogliere il rancore che molti giovani nutrono nei confronti degli uomini in divisa, a restituire credibilità alle amministrazioni coinvolte nelle violenze di Genova. "Non è che debba volare per forza una testa posta in alto perché altrimenti si dice che sono volati solo gli stracci. Io non credo che immolare il capo della polizia avrebbe risolto il problema. Il capo della polizia ha ritenuto di non dimettersi. Ha con fermezza detto di non essere il responsabile di quanto è accaduto. Le violenze di Genova gli sono apparse così lontane dalla sua cultura professionale, dalla sua storia di poliziotto che ha pensato di restare al suo posto, di difendere se stesso". E lei che ne pensa? Era la cosa giusta da fare? "Si voleva mettere al rogo De Gennaro per fare l'incendio più fiammeggiante. Lui era quello più in vista, e poco importa se a Bolzaneto c'era soprattutto la penitenziaria che non dipende certo da lui. Io penso invece che va sempre accertato chi ha fatto che cosa. Anche per questo non vedo l'ora che i processi di Genova si concludano in modo che se ne possa riprendere il bandolo e riportarlo all'interno dell'amministrazione assumendo le decisioni più opportune". Veltroni chiede di accertare se ci siano state, per Genova, responsabilità politiche. È un'opinione condivisa che se oggi la politica ha a lungo taciuto, allora parlò. "Guardi, io escludo nel modo più assoluto che Gianfranco Fini, della cui presenza a Genova si è molto parlato, abbia potuto dare l'ordine di picchiare duro. Lo conosco. E so che la sua cultura è altra. È possibile piuttosto che, con un governo di centro-destra, ci sia stato chi tra le forze dell'ordine e nella polizia penitenziaria abbia pensato di dare una lezione ai "comunisti". E d'altronde le frasi che sono state gridate a Bolzaneto non lasciano margini al dubbio che si è voluto colpire e punire i "comunisti"". Questa conclusione, però, rende ancora più inspiegabile il lungo silenzio della politica. Non le pare? "Non parlerei di silenzio. Parlerei di indifferenza, o meglio di ritrosia. Sorprendente, se ci pensa: si è strillato molto più per Guantanamo che non per Genova. Siamo più sensibili ai diritti umani nel mondo, che al loro rispetto a casa nostra. Anche per questo sarebbe essenziale che rilevassimo come una macchia l'eccezione del 2001 e attivassimo le difese per evitare che si ripeta". Ma perché quella ritrosia? "Per l'incompiutezza della nostra democrazia. Le forze politiche affrontano questioni dell'ordine pubblico con un sentimento da "taci il nemico ti ascolta". Alcune pensano che le forze dell'ordine possano essere un territorio di conquista, altre credono che - facendone un bersaglio di furori polemici - possano guadagnare consensi. Nasce così, tra eccessi e reticenze, una frattura nel sistema politico, diviso tra chi parteggia e chi accusa". Ancora ieri la "Sinistra Arcobaleno" di Bertinotti ha chiesto una commissione parlamentare d'inchiesta già invocata nella scorsa legislatura e bocciata anche dal centro-sinistra. Lei pensa che una commissione d'indagine possa essere utile? "Le dico quel che penso e non da oggi, ma dall'epoca in cui scrissi quel libro di cui parlavo all'inizio: per accertare la verità, mi fido della giustizia non della politica. Noi - e non soltanto noi politici - siamo sempre tentati dal deformare i fatti, piegarli alle nostre convenienze e utilità. Il più straordinario frutto della nostra civiltà è stata la creazione della giurisdizione, di quel potere autonomo e indipendente da altri poteri a cui abbiamo affidato il compito di ricostruire che cosa è accaduto e per responsabilità di chi. Per accertare la verità di Bolzaneto conviene affidarsi al lavoro del giudice e lasciar perdere le commissioni parlamentari". (21 marzo 2008)
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