“Il popolo due sole cose ansiosamente desidera: il pane e i giochi circensi”. Nelle sue Satire, il poeta romano Decimo Giunio Giovenale aveva sintetizzato in maniera tanto lucida quanto ironicamente sfiduciata, le aspirazioni della plebe. Da quando il genere umano ha inventato il potere, infatti, chi lo ha detenuto ha sempre cercato di trovare un elemento che fungesse da valvola di sfogo per la popolazione, al fine di mantenerla distante dalle problematiche rilevanti. È per questo motivo che nell’antica Roma sono nate le lotte fra i gladiatori o le corse tra cavalli, mentre in Grecia si è invano tentato di introdurre il popolo negli aspetti politico-decisionali, attraverso l’ampliamento della democrazia fino al suo punto più estremo. Il calcio, in questo senso, può essere senz’ombra di dubbio considerato il gioco circense del secolo scorso e in parte di quello attuale; uno sport definito da Pier Paolo Pasolini come “l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo”, che è “rito nel fondo, anche se è evasione. Mentre altre rappresentazioni sacre, persino la messa, sono in declino, il calcio è l’unica rimastaci”. Questa visione popolare del gioco più amato dagli italiani sta, tuttavia, perdendo sempre più le sue profonde radici, trasformandosi kafkianamente in un freddo e incolore evento televisivo, uno spettacolo mainstream basato unicamente sulla tutela del telespettatore, rigorosamente pagante, con orari poco consoni e pratici per chi vive lo stadio, al fine di permetterne la visione al più alto numero di paesi del globo. Anni fa la partita di pallone era percepita come una festa. Si disputava la domenica, rigorosamente alle 15, e coincideva con i novanta minuti e più di svago dopo una settimana intensa di lavoro. Era un elemento fondamentale per non essere inghiottiti nel mondo che evolveva, per evitare quella forma di alienazione tipica del lavoro post-moderno. Si arrivava con ore e ore di anticipo, si portava il cibo e da bere, i tamburi, gli striscioni e si preparavano coreografie anche sul momento. Era un mondo diverso, sicuramente ricco di violenze (basta leggere qualche dato sugli episodi di teppismo legati al calcio), con un occhio speranzoso verso il futuro e uno preoccupato in direzione di un muro: il Muro. Adesso questa festa è sparita, crollata al cospetto della repressione, delle Tessere del Tifoso, degli harakiri di un mondo ultrà spaesato e delle violenze fisiche e psicologiche ingiustificate, da parte di entrambe le fazioni. Il giorno che fu di festa è diventato una sorta di percorso ad ostacoli: tra tornelli, controlli degni del miglior aeroporto del pianeta, panico morale, divieti di ogni tipo, prezzi esorbitanti per stadi fatiscenti. E recentemente è stata presa dalla Prefettura, con l’avallo di Roma e Lazio, anche la decisione di alzare nuovi muri nelle curve dello stadio Olimpico, di dividere luoghi profanamente sacri e carichi di simbologie in nome dell’ordine pubblico. Il tutto all’oscuro di chi ha pagato con largo anticipo per un posto che, forse, non esisterà più; lasciato passare sotto il naso di molti senza repliche e spiegazioni da parte di nessuno. Non una parola di scuse per il danno arrecato né un passo in avanti per aiutare chi ha subito passivamente tale decisione. Un’occasione d’oro per il Codacons, che poteva sfruttare l’occasione per far valere il suo operato: ma forse è più interessante battagliare per la pubblicità fatta da un calciatore che festeggia con un autoscatto il gol in una stracittadina… Il 23 agosto toccherà ai laziali, una settimana dopo ai tifosi della Roma. Saliranno quegli scalini e davanti vedranno il cuore pulsante della loro squadra diviso a metà, scruteranno quelle vetrate e cercheranno con lo sguardo chi, prima, stava spalla a spalla insieme a loro. Uno spettacolo triste, un sacrificio ritenuto essenziale per scovare i soggetti non graditi in questo mondo del calcio egemonizzato dagli irreprensibili atteggiamenti di dirigenti, politici e prefetti. Ma come, non avrebbero dovuto risolvere questo problema l’introduzione dei tornelli, delle telecamere a circuito chiuso, i Daspo e la Tessera del Tifoso? Probabilmente sì, anzi sicuramente, almeno a detta dei maggiori esponenti della sicurezza pubblica. Ma si sa che, sempre parafrasando Pasolini, siamo un paese senza memoria, un Gattopardo in cui però sono riusciti, con la forza della paura e del tempo, ad edificare un enorme totem per ricordarci che ciò che avviene in uno stadio conta più del resto, più di tutto. In una città stracolma di problemi come Roma, con lo scandalo Mafia Capitale in corso e quotidiani scontri su tematiche ben più rilevanti (immigrazione, lavoro, diritto alla casa), le misure urgenti riguardano, incredibilmente: lo stadio Olimpico. Dopo aver tolto a buona parte del popolo l’interesse verso una politica marcia e profondamente malata nelle sue fondamenta, adesso la trasformazione dell’industria calcio potrebbe privare molti anche del “gioco circense”, per dirla alla latina. Il pane scarseggia, il divertimento è osteggiato. Cosa rimane adesso? Rimane l’amore incondizionato di chi continua a riempire di passione gli stadi, rimangono i regolari e rimarrano quelli estroversi e potenzialmente pericolosi, secondo la morale pubblica. Perché come ogni spaccato sociale, sfido qualcuno a trovarne uno differente, le curve italiane non possono né potranno mai essere un fenomeno totalmente puro e angelicato. Di fronte ai lati estremamente positivi, come l’aggregazione e la partecipazione collettiva, esisteranno sempre episodi negativi in base all’abusato concetto di opinione pubblica. Ci saranno fin quando ci sarà l’uomo, in quanto essere cosciente e tendente all’errore, anche il più marchiano e violento. C’è ben poco di umano invece nel dividere amici, parenti, amanti, attraverso l’utilizzo di vetrate o muri. La Storia ha insegnato l’inutilità di essi, ma come disse Oriana Fallaci: “L’intelligenza non ha confini, riesce sempre a penetrare il muro dell’idiozia costituzionalizzata”. Questo serve oggi per salvare il calcio italiano dalle manovre di chi, spesso e volentieri, prende decisioni senza aver mai frequentato uno stadio, men che meno una curva, o ancor peggio approva direttive basandosi sugli usi e costumi del proprio paese, evitando di spiegare il perché o al limite scusarsi con chi, ingiustamente, subirà un torto pur essendo il più fedele dei seguaci. Serve intelligenza e soprattutto conoscenza della materia, per restituire finalmente alle persone lo sport che, mattone dopo mattone, sta crollando di fronte ai nostri increduli occhi. Serve una decisione seria da parte del mondo ultrà, il quale dovrà capire se vuole scambiare il ruolo di comparsa nella battaglia, con quello di protagonista in una gabbia. |