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DAVIDE LIBERO











Da 30 denari a un panettone, il calcio è un gioco? Ma per chi?

 

FONTE: sportpeople

 

È un voto personale quello di non parlare mai della squadra che ho seguito da ultras. Non siamo rimasti buoni amici, come si direbbe alla fine di un rapporto d’amore, per cui evito, onde evitare traspaia un livore che non renda giustizia del tanto amore che c’è stato. Non di meno sono solito parlare di una città che da più di dieci anni non vivo più nella sua quotidianità, se non a 500 km di distanza o nei racconti di parenti e amici: ci sono tante, troppe cose che non sopporto di “lei”, ma restano in subordine ai sentimenti veri che ho vissuto, le amicizie, i percorsi sociali costruiti in un contesto fortemente anti-sociale, i risultati raggiunti, le soddisfazioni ed i riconoscimenti interni ed esterni alle antiche mura cittadine.
Mi prendo una deroga. La famosa eccezione che conferma la regola del silenzio in cui mi ritirerò successivamente di buon grado.
Bene. Da qualche tempo in riva al Golfo natio tiene banco la questione Energas. In estrema sintesi si tratta di un impianto di deposito costiero di gpl, opera che ancora una volta pone la comunità locale tra il martello e l’incudine, tra la speranza di occupazione senza badare ai dubbi sulle ricadute per l’ambiente e la salute.
La storia è ciclica e finisce per ripetersi (la seconda volta come tragedia, poi come farsa, disse qualcuno…), capitò infatti qualcosa di analogo con l’Enichem, il petrolchimico di Stato, il miraggio del posto di lavoro fisso per il quale tante persone dal circondario si trasferirono in zona, trasformando un piccolo borgo di pescatori dalle aspirazioni turistiche, in un centro industriale. O almeno così si pensava.
In qualche decennio la vocazione turistica e quella marinara furono definitivamente immolate al mostro dalle torri a fasce orizzontali biancorosse, che effondevano densi fumi ed ogni tanto vere e proprie nubi di ammoniaca, arsenico o salcazzo quale altra maleodorante sostanza. Ogni tanto, quando il vento girava verso il centro abitato, potevi sentire le mamme borbottare per la puzza e le polveri giallastre che si posavano su balconi e finestre. Le più ansiose vivevano con la valigia sempre pronta, oppresse dell’angoscia dell’evacuazione, che dopo l’esplosione del 1976 divenne uno spettro costante, concretizzatosi poi più volte.
Qualche altro decennio e anche l’Enichem (poi Anic) chiuse i battenti e non rimase più nemmeno la vocazione industriale, dopo il defunto turismo e la moribonda pesca. Non ci fu solo un’ecatombe occupazionale, “I fantasmi dell’Enichem”, come raccontato nel libro di Giulio Di Luzio prendendo a prestito la coraggiosa storia dell’operaio Nicola Lovecchio, sono fantasmi in carne e ossa, malati di tumore o delle più svariate patologie figlie della fabbrica maledetta. Nella causa che citava in giudizio i vertici del petrolchimico, erano coinvolti diversi altri operai, persino il Comune si costituì parte civile, ma si fecero tutti comprare per due noccioline, lasciando il solo Lovecchio (e poi i suoi eredi, dopo la sua morte) andare a fondo in questa questione di principi. La solita storia di cittadini piccoli che in fondo non riesco nemmeno a biasimare, spaventati da branchi di avvocati bavosi al soldo del colosso industriale. Il Comune e la classe politica quella no, non riesco a giustificarla in nessun modo: colpevole era per l’arrivo della fabbrica, colpevole e connivente rimase nel mentre lo scempio si perpetrava, colpevole s’è confermata a posteriori, persino nella battaglia contro il passato nefasto.
Parecchi anni dopo, quando non c’era rimasto più ormai nemmeno un palmo di terra netta, la politica locale e nazionale s’invento il cosiddetto “Contratto d’Area”, un programma di reindustrializzazione coatto del paesaggio post-apocalittico rimasto dopo la chiusura della fabbrica. Ad una pletora di carogne in giacca e cravatta venne concessa per legge una zona franca alla legge stessa, in cui sottopagare gli operai, ricevere incentivi statali, non pagar tasse e poi andarsene alla scadenza di detto “Contratto”, lasciando gli operai con un palmo di naso e altri capannoni abbandonati a sé.
Cosa c’entra tutta questo rosario di tentativi ipocriti di rilancio industriale con l’Energas o con il calcio? Tutti hanno in qualche modo usato il calcio come basso strumento di propaganda, il più classico accoppiamento “panem et circenses” come volano per ripulirsi la loro faccia di merda e farsi metabolizzare dalla città come benefattori, filantropi veri quando l’excursus testé snocciolato basta da sé a dirvi che razza di bastardi questi signori siano stati. Con l’ovvio beneplacito della politica, ca va sans dire, e l’immancabile collaborazionismo dei tessuti molli della città, quelli che in mancanza di una spina dorsale propria, vivacchiano gaudenti nell’assistenzialismo mortificante.
Ero ancora un ragazzino, le sfumature delle vicende che avvenivano attorno al “pallone”, che all’epoca per me era ancora ingenuamente un gioco, non riuscivo a percepirle. In quegli anni le maglie ospitarono lo sponsor “Enichem Agricoltura” ed una pari scritta a caratteri cubitali venne installata sulle mura perimetrali lato mare. Anni dopo di tutto quello rimase solo una “C”, non so perché, forse era il sogno della promozione paventata in Serie C, forse appunto non ci rimasero che quello, i sogni eternamente vagheggiati e mai compiuti. Ricordo altrettanto bene una scritta nelle mura esterne “I vostri soldi sono sporchi come le vostre coscienze” accompagnata da un’altra scritta che ricordo con meno precisione, ma il cui senso era “Via dalle maglie quel lordume”. Fu per me la fine della fanciullezza, comincia a rendermi conto che nel calcio c’era ben più che l’interesse per il semplice gioco che da bambino mi aveva appassionato. Il Manfredonia Calcio costruì comunque una signora squadra, ma com’è e come non è, il salto dalla “IV Serie”, come la chiamavano gli anziani, alla “Serie C” non avvenne. Ero, come detto, un ragazzino, non riuscì a percepire tutte le sfumature del fallimento mentre si realizzava, quindi non saprei dire se fu semplice fallimento sportivo, se la pancia della città riuscì a defecare quel virus o se, più semplicemente, l’atto di propaganda si limitasse ad una sponsorizzazione disimpegnata che non poteva incidere oltre nella maturazione del risultato.
Di lì a poco le scritte per strappar via quello sponsor dalla maglia, lasciarono il campo ad un’epidemica insofferenza racchiusa nei “Via l’Enichem” che cominciarono ad apparire ovunque. La goccia che fece traboccare il vaso fu la notizia dell’arrivo in città di quella che fu definita “la nave dei veleni”, la tedesca “Deep Sea Carrier” che, rimbalzata dalla Nigeria, forse stanca di fare da pattumiera europea, venne spedita dapprima a Livorno e poi si diresse verso il Gargano. Ne seguirono giorni di furibonde battaglie dapprima solo civili, poi divampata in una vera e propria rivoluzione urbana con assalto al Palazzo del Comune, sindaco e istituzioni che scappavano come topi, barricate, blocchi stradali e ferroviari. Ho il ricordo vivo di mia madre che lavorava fuori città e non poteva uscirne dati i posti di blocco, non si poteva nemmeno entrare, le scuole e i negozi chiusi, la città tutta aveva calato il velo nero della rabbia davanti ai propri occhi. Fu in quei giorni che vidi per la prima volta nella mia vita un reparto anti-sommossa della Polizia, le prime cariche, i manganelli, gli scudi, gli scontri pesantissimi e le macchine ribaltate. Nel furore della violenza, noi ragazzini scorgemmo più di qualche volto conosciuto del “mondo dei grandi”, quelle figure che per noi incarnavano “il bene” e cominciammo a percepire che la violenza a volte può avere delle sfumature salvifiche e che può, contrariamente, essere molto più violenta una firma in un’ordinanza.
Volendo approfondire ci furono parecchi abusi in quei giorni, parecchie mortificazioni del concetto di “determinazione popolare”, ma mi piace conservarne il ricordo del bambino di dieci anni, che lo giudicò per parecchi anni a venire come il colpo di coda della Dignità cittadina morente. Per certi versi fu davvero così.
Tornando al calcio, venendo all’epoca della colonizzazione di Confindustria, nella fattispecie di quella trevigiana, anche l’accolita dei farabutti del Contratto d’Area si riunì a consorzio e si insinuò nella gestione della locale squadra di calcio. Ne seguirono forse gli anni più splendenti del calcio cittadino, sui quali nessuno si preoccupava di fare o farsi domande all’apice del godimento. Il prezzo pagato fu lo stesso: finito il gioco, saluti e baci a tutti, rimasero giusto cocci e macerie su cui piangere malinconia sul tempo che fu.
Oggi è la volta di questa tale Energas ed ecco la storia assumere i beffardi tratti della farsa. Se nel passato avevano comprato la città con i 30 denari del benessere effimero o della Serie C, oggi ecco gli sciacali senza più ritegno venire a comprarsi tutto con un piatto di lenticchie. Per essere più precisi un panettone ed uno spumante offerti al pubblico presente allo stadio. La cosa più squallida in tutta questa vicenda, al pari di tutte le vicende simili del passato, non è tanto o solo chi vorrebbe comprare con delle offerte ridicole, ma chi si lascia comprare. Non c’è nemmeno bisogno di fare nomi e cognomi, i colpevoli sono sotto gli occhi di tutti, da chi ricopre cariche di un certo rilievo e permette questo stupro anale alla comunità, a quella parte di cittadini indegni che tengono aperte le pacche del culo a due mani, in cambio della promessa di due soldi, in cambio di un panettone ed uno spumante. Buon natale a tutti.

 

Matteo Falcone